Per parlare di questo romanzo partiamo dal principio, e il principio è un titolo italiano che nella mia testa fa il verso ad A volte r...

McCammon-Loro-Attendono

 

Per parlare di questo romanzo partiamo dal principio, e il principio è un titolo italiano che nella mia testa fa il verso ad A volte ritornano di King e che sposta il centro dell'attenzione dal dove – la città, vero fulcro di questo romanzo di McCammon – al chi.

Il dove nel quale si svolge la gran parte della storia raccontata in Loro attendono è Bethany's sin, sobborgo urbano pulito e curato, sebbene un po' troppo silenzioso. E se è vero che nomen omen, su una città che nel nome si porta la parola peccato qualche domandina me la farei prima di andarci a vivere con tutta la famiglia.

Perché, nonostante Bethany's sin sembri il luogo ideale dove crescere i propri figli, va anche detto che dietro tanti sorrisi cordiali si nasconde il ghigno di gente che sogna di appendere sul camino di casa la testa mozzata di un uomo.

Loro attendono [Bethany's sin in originale] è la terza prova come autore di Robert McCammon dopo Baal, folgorante esordio di un ragazzo che all'epoca ha da poco compiuto ventisei anni.

Quando scrive Bethany's Sin McCammon ha ventotto anni. Non è passato moltissimo tempo dal suo primo romanzo, ma già la pressione deve farsi sentire. Del resto, se devi quotidianamente misurarti con King - gigantesca pietra di paragone per chiunque abbia un po' di successo nel campo della narrativa di genere - va a finire che tu debba metterti a sfornare romanzi per nutrire periodicamente una macchina, quella editoriale, che ti mastica a fondo finché non è riuscita a consumarti del tutto.

A McCammon questo succede una quindicina d'anni dopo il debutto. È il 1992, ormai ha all'attivo tredici tra romanzi e raccolte (una media di un libro all'anno), e probabilmente sfinito, decide di prendersi una lunga pausa dalla macchina da scrivere.
O questo o buttarsi nell'alcol, direbbe King.

Ma ad appena due anni da Baal McCammon è ancora un giovane di belle speranze. Così, nel 1980 firma il contratto per questo romanzo su un veterano del Vietnam che si ritrova a dover affrontare un manipolo di Amazzoni redivive.

Se volessimo leggere il romanzo usando esclusivamente le lenti della metafora, potremmo dire che Bethany's Sin è la storia di un uomo contro la guerra.

Da un lato abbiamo Evan Reid, il protagonista, che ha vissuto nell'inferno, ha subito la prigionia e la tortura ed è riuscito, faticosamente, a fuggirne. Dall'altro delle donne che fanno della battaglia e della carneficina l'unica ragione di vita.
In effetti, però, c'è dell'altro.

Sono anni difficili, questi, per gli USA. È un periodo buio e disastroso sul piano politico e sociale: disoccupazione alle stelle e marginalizzazione delle classi più povere da un lato, progressivo conservatorismo dell'upper class dall'altro.
È la stagione di Reagan e di una società che i poveri li rinchiuderebbe felicemente in un ghetto, per non pensarci più.
Così chi può abbandona le città per rifugiarsi in quei bei sobborghi urbani che conoscono, in questo periodo, il massimo del loro sviluppo.
Gli Ottanta sono anche gli anni di L'alba dei morti viventi, Society ed Essi vivono, tanto per citare pellicole che hanno sfruttato l'horror e il grottesco per raccontare un periodo storico ben preciso.

In questo clima di incertezza e sfiducia, dove basta un niente per ritrovarsi in mezzo a una strada e in cui ogni occasione che ti si para davanti va afferrata senza starci troppo a pensare su, si innesta la storia dei Reid.
Lui, Evan, un veterano che fa sogni profetici e ha ambizioni da scrittore, lei, Kay, che sopporta a fatica le visioni del marito e che trascina tutti a Bethany's Sin perché le viene offerto provvidenzialmente lavoro nel campus cittadino. Proprio nel momento in cui si trovano in maggiore difficoltà, dopo che Evan ha perso il proprio impiego per aver quasi tentato di ammazzare il suo capo.

Vedi tu le coincidenze.

La vita a Bethany's Sin è fantastica, se non fosse che i vicini sono così perfetti da sembrare finti. Le strade poco trafficate, la vita comunitaria ridotta all'osso.
Un posto tranquillo. Sì. Un posto decisamente troppo tranquillo.

Torniamo per un istante indietro di una decina d'anni. È il 1972 e Ira Levin ci regala quel bel romanzo che è Stepford Wives. Anche lì, un sobborgo urbano che farebbe venire l'acquolina in bocca a più di un'agente immobiliare nasconde, sotto quella patina di luogo di lusso destinato alla middle class, un piccolo luna park degli orrori.

Se ho scelto di tirare in ballo Levin non è per far vedere che so costruire una mappa concettuale, ma perché le storie sembrano l'una la versione speculare dell'altra.

A Stepford ci trovavamo dentro una comunità dominata dal Club degli Uomini, il cui scopo ultimo era trasformare le proprie compagne in robot sessualmente appaganti. A Bethany's Sin sono invece le donne che si cooptano per trasformare i mariti in schiavi sessuali, azzoppandoli come una qualsiasi Annie Wilkes perché non scappino, e usandoli per generare figli. Anzi, figlie, ché i maschietti vengono per lo più offerti a Madre Natura e gettati via come scarti inutili (e se la cosa vi sembra eccessiva, ricordatevi che viviamo in un'epoca in cui l'infanticidio femminile è ancora una piaga largamente diffusa).

Insomma, a Bethany's sin ci troviamo in una comunità dove il rapporto tra i sessi si è rovesciato, con gli uomini ridotti a male necessario quando utili per la riproduzione o, alla peggio, trasformati in divertenti prede da cacciare nelle notti di luna piena.

L'idea è interessante. Lo svolgimento un po' meno.

Sicuramente va dato merito a McCammon di aver tentato di rinnovare il topos della città infestata utilizzando come agente corruttivo una antichissima e leggendaria stirpe di guerriere.  Il richiamo alla mitologia - seppure una mitologia riadattata - è continuo. Evan si contrappone alla Regina-sindaco delle Amazzoni come in una riedizione moderna del mito di Achille e Pentesilea, contribuendo al carattere di epicità dello scontro finale. Così come è curiosa l'interpretazione che viene data della splendida Artemide Efesia.

Eppure alle donne di Bethany's sin manca una cosa importante: la volontà. Quelle che agiscono contro Evan e gli altri uomini non sono le donne che hanno messo piede a Bethany's sin al seguito di un camion per il trasloco bensì i loro involucri, nei quali si sono annidati gli spettri delle ultime Amazzoni.

Intendiamoci. Mi rendo conto che non era probabilmente nelle intenzioni di McCammon intavolare un dibattito sui rapporti di genere con un romanzo dell'orrore ma, dal mio punto di vista, quella della lotta tra generi è diventata una macrotematica che ha avuto il sopravvento sulla storia. E, inevitabilmente, sulla recensione.

Il problema è che in tutto il romanzo non c'è una sola figura femminile degna di nota. Sono tutte o incapaci di difendersi da sole dall'influsso della Regina-sindaco (è il caso della moglie di Evan, Kay) o fatue biondine da una battuta e via.
Ed è questa la cosa che leggendo mi si è parata davanti come la testa di un uomo alto due metri che ti si siede davanti al cinema, disturbandoti nella visione del film.

Per dirla sinteticamente: in Loro attendono non c'è un singolo personaggio femminile che di profilo abbia uno spessore. Eppure è un romanzo dove le donne hanno un ruolo centrale. L'unica che si discosta da questo piattume è il sindaco di Bethany's sin, ma anche in lei la volontà è  ormai sottomessa al potere della Amazzoni.
Le donne di Bethany's sin sono creature deboli, suggestionabili. Acquistano forza e potere solo nel momento in cui le Amazzoni le posseggono, cessando di esistere.

L'esempio lo dà Kay, la moglie di Evan. Se McCammon avesse scelto lei nel ruolo dell'eroe sono convinta che tutto il romanzo ne avrebbe acquistato non solo in originalità ma nel rafforzamento del tema centrale, che riguarda l'affrontare le proprie paure e debolezze a costo della vita.

Così invece abbiamo il personaggio di una donna ottusa, un po' isterica, che nega l'evidenza fino quasi a morirne e che si salva solo perché il marito interviene in suo soccorso, sacrificandosi per lei.

A questo che, per me, è il più grande difetto dell'impianto narrativo si aggiunge una gestione non proprio ottimale della suspense.
E qui, di nuovo, sono costretta a fare paragoni con Levin.

Se in Stepford Wives non capiamo, fino all'ultimissimo capitolo, che le paturnie di Joanna non sono poi paturnie, che c'è davvero qualcosa che non va nelle sue vicine, qui il tentativo di McCammon di giocare l'elemento sorpresa fallisce senza appello.
L'impressione che si ha durante la lettura è che l'autore sia stato incerto fino all'ultimo se rivelare subito la natura dell'allegra comunità di Bethany's Sin, oppure tenere tutto nascosto per il gran finale.

Non funziona. Non funziona perché che a Bethany's Sin le donne non sono quello che sembrano lo capiamo praticamente dal primo incontro con i vicini di casa.

Lo capiamo noi ma non il protagonista che, nonostante i sogni premonitori impiega metà romanzo per comprendere che dovrebbe fare subito i bagagli e andarsene.
E sì che la soluzione gli viene praticamente urlata all'orecchio dal marito mutilato della loro vicina.

Ma c'è di più.
Arriva il momento in cui Evan si convince che tutte le donne del circondario siano delle pazze assassine. Eppure, nonostante l'elefante che gli balla nella camera da letto, non batte ciglio quando la dottoressa dell'unico centro medico della comunità gli dice che deve prendere in carico sua moglie, che a quel punto ha già dimostrato di non essere più se stessa, per poterla sottoporre a delle analisi.
La cosa più divertente di quella scena? Il fatto che Evan non sia costretto a consegnare la moglie la notte stessa in cui il medico gli piomba in casa. No. Lui la fa ricoverare tranquillamente la mattina successiva. Quando la maggior parte di voi avrebbe già provveduto a imbarcarsi sul primo volo di sola andata per l'Alaska.

È questo il momento in cui si vede tutto il meccanismo del romanzo, meccanismo che avrebbe dovuto restare al riparo dagli occhi del lettore. A McCammon serve che Kay vada in ospedale. Serve che Evan resti da solo. Gli è necessario per la chiusura del romanzo. E lo fa mandando la logica a cogliere margherite.

Purtroppo non basta uno stile ricco di immagini e fortemente evocativo - una scrittura capace di rendere trasparente il foglio dando modo al lettore di vedere la scena descritta - a risollevare il giudizio su un romanzo nel quale il tema centrale viene sviluppato per inerzia e dove il protagonista ha un arco di trasformazione che appare forzato rispetto allo sviluppo dell'intreccio.

In conclusione, Loro attendono è un romanzo che potenzialmente consiglio ai nostalgici di un certo modo di fare orrore, fratello degli anni Ottanta. Ma, ecco, non mi affannerei a cercarlo

  Hanno Sete (They Thirst bell'originale in inglese) è il terzo libro di Robert McCammon pubblicato nel 1981. Un male vecchio come...

Robert-McCammon-Hanno-Sete

 

Hanno Sete (They Thirst bell'originale in inglese) è il terzo libro di Robert McCammon pubblicato nel 1981.

Un male vecchio come il mondo si è trasferito dalle lande desolate di un paese dell'est europeo nel calderone ribollente della Città degli Angeli, più di otto milioni di persone e un campionario di ogni genere di umanità... Il contagio che questo male porta con sé si diffonde, prima lentamente, poi in proporzione geometrica: la città e l'intera nazione sono minacciate, poi toccherà al resto del mondo.

Uno sparuto gruppetto di persone si frappone al piano di un Principe Non-Morto: un detective della omicidi che quel male ha conosciuto durante la sua infanzia, un prete condannato a morte da una malattia incurabile, un attore della televisione che cerca di strappare la donna amata a un destino peggiore della morte, una giornalista abituata a rimestare nel torbido e un bambino che vuole vendicare l'uccisione dei suoi genitori. Le armi con cui combattono sono poche e inadeguate, ma la loro arma migliore è la fede...

Dopo Dracula di Bram Stoker e Le notti di Salem di Stephen King, un capolavoro assoluto della letteratura vampirica da uno dei maestri incontrastati dell'Horror.

TRAMA

Quella notte c'erano dei demoni nel focolare.

Facevano mulinello, si inarcavano e mandavano scintille negli occhi del bambino che sedeva accanto al fuoco, le gambe incrociate sotto di sé in quel modo inconsapevole che hanno i ragazzi di essere snodati. Il mento sorretto dal palmo delle mani, i gomiti sostenuti dalle ginocchia, sedeva in silenzio, guardando le fiamme riunirsi, fondersi e scoppiare in frammenti che sibilavano segreti. Aveva compiuto nove anni solo sei giorni prima, ma adesso si sentiva grande, perché papà non era ancora tornato a casa e quei demoni nel fuoco stavano ridendo.

Mentre sono via sarai tu il capo della casa, aveva detto papà, avvolgendo un tratto di spessa corda attorno a quella zampa d'orso che era la sua mano. Devi aver cura di tua madre e assicurarti che tutto vada bene mentre io e tuo zio siamo via. Chiaro?

Sì, papà.

E vedi di portarle dentro la legna quando te lo chiede, e sistemala bene lungo la parete in modo che possa asciugarsi. E qualsiasi altra cosa ti chiederà, la farai, vero?

La farò. Gli sembrava ancora di vedere torreggiare sopra di sé il volto di suo padre screpolato e segnato dal vento e di sentire sulla spalla la sua mano ruvida come una pietra del camino. La presa di quella mano gli aveva trasmesso un messaggio silenzioso: È una cosa seria quella che sto facendo, ragazzo. Non fare errori. Bada a tua madre e sii prudente.

Il bambino aveva detto di aver capito e papà aveva annuito soddisfatto.

Il mattino seguente aveva guardato dalla finestra della cucina lo zio Joseph che agganciava i due vecchi cavalli grigi e bianchi al carro. I genitori si erano appartati, in piedi dall'altra parte della stanza vicino alla porta assicurata con una grossa spranga imbullonata. Papà aveva indossato il berretto di lana e il pesante pastrano di pelle di montone che mamma gli aveva confezionato anni addietro come regalo di Natale, poi si era messo attorno alla spalla la corda avvolta. Il bambino aveva mangiucchiato distrattamente da una scodella di brodo di carne, sapendo che stavano sussurrando in modo che lui non li sentisse. Ma sapeva che, se avesse ascoltato, non avrebbe comunque voluto conoscere per davvero quello che si stavano dicendo. Non è giusto! si disse mentre intingeva le dita nel brodo e pescava un boccone di carne. Se devo essere il capo della casa, non dovrei conoscere anche i segreti?

Dall'altra estremità della stanza la voce di mamma si era improvvisamente alzata senza più controllo. Lascia che lo facciano gli altri! Ti prego. Ma papà le aveva preso il mento, tenendole alto il viso e guardandola con tenerezza in quegli occhi grigi come il mattino. Devo farlo, aveva detto, e lei sembrava volesse piangere e non potesse. Aveva esaurito tutte le lacrime la notte prima, sdraiata sul letto nell'altra stanza. Il bambino l'aveva sentita per tutta la notte. Era come se le pesanti ore del buio le stessero spezzando il cuore e non ci sarebbero mai state ore di luce sufficienti a rincollarne i pezzi. No, no, no, mamma stava ora ripetendo, ancora e ancora, come se quella parola avesse qualcosa di magico capace di impedire a papà di uscire fuori alla luce del giorno nevoso, come se quella parola avesse potuto sigillare la porta, legno contro pietra, per poter chiudere lui dentro e i segreti fuori.

E, quando lei aveva fatto silenzio, papà aveva preso la doppietta dalla rastrelliera accanto alla porta. Aveva aperto l'arma e caricato con cartucce a pallettoni entrambe le camere, rimettendola giù con attenzione. Poi aveva tenuto stretta la mamma e l'aveva baciata e le aveva detto: Ti amo. E lei gli si era attaccata come una seconda pelle. E a quel punto lo zio Joseph aveva bussato alla porta e chiamato: Emil! Siamo pronti a partire!

Papà l'aveva abbracciata ancora per un attimo, poi aveva afferrato il fucile che aveva comprato a Budapest e aveva aperto la serratura della porta. Si era fermato sulla soglia e i fiocchi di neve gli volteggiavano intorno. André! aveva detto, e il bambino aveva alzato lo sguardo. Prenditi cura di tua madre e assicurati che questa porta rimanga ben sprangata. Capito?

Sì, papà.

Sull'uscio, stagliato sullo sfondo del cielo pallido e dei denti violacei delle lontane catene montuose, papà aveva rivolto lo sguardo verso la moglie e aveva pronunciato cinque parole a voce bassa. Erano poco chiare, ma il bambino le aveva percepite, con il cuore che gli batteva in un oscuro disagio.

Papà aveva detto: Fa' attenzione alla mia ombra.

Quando si fu allontanato, il sibilo del vento di novembre riempì lo spazio che aveva occupato. Mamma si fermò sulla soglia, con la neve che fioccava sui suoi lunghi capelli, invecchiandola ogni momento di più. Teneva gli occhi fissi sul carro mentre i due uomini incitavano i cavalli lungo il sentiero lastricato che li avrebbe portati a raggiungere gli altri. Rimase ferma lì per molto tempo, quasi a sfidare la falsa, bianca purezza del mondo oltre quella porta. Quando il carro sparì alla vista, si girò, chiuse la porta e la sprangò. Poi rivolse lo sguardo verso il figlio e disse con un sorriso che sembrava più una smorfia: Fa' i compiti, adesso.

Erano tre giorni che era via. Ora i demoni ridevano e danzavano nel fuoco e qualcosa di orribile, intangibile era penetrato nella casa per piazzarsi nella sedia vuota davanti al camino, per sedere tra il bambino e la donna durante i loro pasti serali, per andar loro dietro come una folata di cenere nera sollevata da un vento errante.

Gli angoli delle due stanze della casa divennero progressivamente freddi via via che il ciocco di legno si consumava lentamente, e il bambino poteva vedere un flebile fantasma di nebbia esalare volteggiando dalle narici della madre ogni volta che lei espirava.

«Prendo l'accetta e vado a fare altra legna», disse il bambino, facendo per alzarsi dalla sedia.

«No!», gridò la madre immediatamente, e alzò la testa. I loro sguardi s'incontrarono e i loro occhi grigi rimasero a fissarsi per qualche secondo. «Quella che abbiamo è sufficiente per la notte. Adesso è troppo buio di fuori. Puoi aspettare fino alle prime luci».

«Ma quella che abbiamo non è abbastanza...».

«Ti ho detto di aspettare fino al mattino!». Distolse lo sguardo quasi subito, come se si vergognasse. I ferri da maglia luccicavano alla luce del fuoco mentre lavorava lentamente a un maglione per il bambino. Quando lui si sedette di nuovo, vide il fucile da caccia nell'angolo lontano della stanza. Emanava un'opaca luce rossastra per il riflesso del fuoco, come un occhio vigile nell'oscurità. E adesso nel camino la fiamma si alzò, mulinò e si frantumò; la cenere si agitò in un vortice su per la cappa e fuori. Il bambino stette a guardare; il calore gli striava gli zigomi e la base del naso, mentre la madre si dondolava nella sedia dietro di lui, gettando ogni tanto un'occhiata al profilo aguzzo del figlio.

In quel fuoco il bambino vedeva delle immagini comporsi, disegnando un murale vivente: vide un carro nero tirato da due cavalli bianchi con pennacchi da funerale, il freddo respiro che usciva in nuvolette. Dentro quel carro una semplice, piccola bara. Altre persone seguivano il carro, con gli stivali che scricchiolavano sulla crosta di neve. Suoni borbottati. Segreti stratificati sulle facce. Occhi socchiusi, spauriti che fissavano le pendici grigio-viola dei Monti Jaeger. Il ragazzo dei Griska giaceva nella bara, e ciò che rimaneva di lui veniva ora trasportato in processione al cimitero dove il lelkész aspettava.

La morte. Al bambino era sempre sembrata così fredda, estranea e distante, qualcosa che non apparteneva a questo mondo, non al mondo di mamma e papà, ma a quello in cui aveva vissuto nonna Elsa quando era ammalata e aveva un colorito giallastro. Papà aveva usato allora quella parola: Sta morendo. Quando sei nella camera con lei, devi stare molto buono, perché non può più cantare per te e ora vuole solo dormire.

Per il bambino la morte era un tempo in cui non c'erano più canzoni e potevi essere felice solo quando avevi chiuso gli occhi. Ora stette a fissare il carro funebre dei suoi ricordi fino a quando il ciocco si sgretolò e le lingue di fiamma si sparpagliarono altrove. Ricordava di aver sentito dei bisbigli tra gli abitanti di Krajeck vestiti di nero: Una cosa terribile. Aveva solo otto anni. Adesso sta con Dio.

Dio? Speriamo, e preghiamo che sia davvero Dio quello con cui ora sta Ivon Griska.

Il bambino ricordava. Aveva visto la bara calata giù con corda e carrucola nell'oscuro riquadro scavato nel terreno, mentre il lelkész intonava benedizioni e agitava il crocifisso. La bara era stata chiusa con i chiodi e poi avvolta col filo spinato. Prima che si cominciasse a ricoprirla con badilate di terra, il lelkész si era fatto il segno della croce e aveva lasciato cadere il crocifisso all'interno della tomba. Questo era stato una settimana addietro, prima che la vedova Janos scomparisse; prima che la famiglia Sandor svanisse nella notte nevosa della domenica, abbandonando tutto ciò che possedeva; prima che Johann l'eremita riferisse di aver visto delle figure nude ballare sulle alture spazzate dal vento dei Monti Jaeger e correre assieme ai grandi lupi della foresta che infestavano quella montagna stregata. Subito dopo che Johann era sparito anche lui assieme al suo cane, Vida. Il bambino ricordava l'inusuale durezza sul viso di suo padre, il fremito di qualche oscuro segreto nei suoi occhi. Una volta aveva sentito papà dire a mamma: Sono di nuovo in movimento.

Nel caminetto la legna si muoveva e gemeva. Il bambino strizzò gli occhi e si fece indietro. Alle sue spalle i ferri da maglia della madre erano immobili; la testa di lei era drizzata verso la porta e stava ad ascoltare. Il vento ruggiva, portando il ghiaccio giù dalla montagna. Si sarebbe dovuto far forza per aprire la porta il mattino successivo, e la crosta di ghiaccio si sarebbe frantumata come vetro.

Papà ormai dovrebbe essere a casa, si disse il bambino. Fa così freddo là fuori stanotte, così freddo... Di sicuro papà non tarderà molto. Sembravano esserci dei segreti dovunque. Appena la notte prima qualcuno era penetrato nel cimitero di Krajeck e aveva aperto, scavando, dodici tombe, compresa quella di Ivon Griska. Le bare erano sparite, ma girava voce che il lelkész avesse trovato ossa e teschi sparsi nella neve.

Qualcosa batté forte alla porta, un rumore come quello di un martello che percuote un'incudine. Una volta. E poi di nuovo. La donna sobbalzò sulla sedia e si girò.

«Papà», gridò con gioia il bambino. Quando si alzò, le forti strinature di calore sul viso furono dimenticate. Si diresse verso la porta, ma la madre lo afferrò per la spalla.

«Zitto!», sussurrò, e insieme aspettarono, con le Altri colpi alla porta ~ un suono sordo, pesante. Il vento urlava, e sembrava il lamento della mamma di Ivon Griska quando la bara sigillata era stata calata nel terreno ghiacciato.

«Apri la porta!», disse papà. «Sbrigati! Ho freddo!».

«Grazie a Dio!», gridò la mamma. «Oh, grazie a Dio!». Si diresse rapida alla porta, tirò via la sbarra e la spalancò. Un torrente di neve le frustò il viso, il vento le deformò gli occhi, il naso e la bocca. Papà, una forma indistinta con il cappello e il pastrano, si fece avanti alla debole luce del focolare e diamanti di ghiaccio gli scintillavano nelle sopracciglia e nella barba. Prese la mamma fra le braccia, il corpo massiccio che quasi la avvolgeva. Il bambino si fece avanti per abbracciare il padre, grato che fosse tornato perché essere l'uomo di casa era molto più difficile di quanto avesse immaginato. Papà si avvicinò, passò una mano fra i capelli del bambino e gli diede una vigorosa pacca sulla spalla.

«Grazie a Dio sei a casa!», disse mamma, stringendosi a lui. «È finita, vero?».

Oggi voglio presentarvi un libro un po’ diverso dal solito. In realtà vorrei presentarvi un’autrice un po’ diversa da tutte le altre, ma h...

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Oggi voglio presentarvi un libro un po’ diverso dal solito. In realtà vorrei presentarvi un’autrice un po’ diversa da tutte le altre, ma ho iniziato questo blog con l’intento di presentare libri e sarò coerente con me stessa scegliendo una delle sue opere in rappresentanza delle altre. Non che poi non possa tornare a presentarvi le altre, ma vorrei prima fare un giro di prova con autori diversi per dare spazio a tutti quelli che sono entrati nella mia vita, una specie di par condicio per intenderci!

Il libro che vi presenterò è Figli di nessuno, di Torey Hayden.

Un bambino di sette anni che non sa parlare se non per ripetere le previsioni del tempo e le parole degli altri, un'incantevole bambina di sette anni che non sa nè leggere nè scrivere a causa di un trauma cranico causatole dal padre, un violento bambino di dieci anni che ha visto la matrigna uccidere suo padre e suo fratello e che passa da una famiglia all'altra, una timidissima dodicenne espulsa dalla scuola perché incinta... Nessuno, se non la maestra dei miracoli, aveva voluto occuparsi di loro. Nessuno aveva cercato di capirli e di aiutarli ad affrontare la vita. Un libro struggente nel quale Torey Hayden intende mettere di fronte all'orrenda realtà dei bambini maltrattati.)

So che ho detto che non sono qui per presentare l’autrice, ma un’introduzione in questo caso è d’obbligo: Torey Hayden è una psicologa infantile e insegnante di sostegno americana, oltre ad aver svolto numerose altre attività nel campo dell’educazione. In gran parte dei suoi libri Torey Hayden racconta proprio le sue esperienze personali di assistenza a scuola a bambini con diversi tipi di problemi, che gli sono valse il soprannome di “maestra dei miracoli”.

Figli di nessuno è una delle tante storie reali che Torey ci racconta. Non so se la mia è solo deformazione professionale, ma trovo questi libri di una bellezza unica, data non solo dall’abilità di scrittrice di romanzi che l’autrice ha più volte dimostrato, ma anche da quello che ritengo un nobile intento, ovvero far conoscere questi bambini a tutti, aiutare a comprenderli e a non additarli come “ingestibili”, perché tutti hanno una storia, tutti si portano qualcosa dentro, nessun bambino nasce per essere un problema.

Torniamo quindi ai Figli di nessuno e alla sua trama:

“Prendete quattro bambini di età diversa e con delle storie diverse e con problemi molto diversi. Metteteli in un’unica classe con un’insegnante che arriva a prendersi cura profondamente di ognuno di loro. Essenzialmente questo è ciò che è successo quando l’insegnante speciale Torey Hayden prese in mano “la classe che si creò da sola”. Per primo arrivò Boo, un bambino di sette anni gravemente autistico. Poi arrivò Lori, anche lei di sette anni, vittima di traumi cerebrali come risultato di abusi fisici. Quindi arrivò Tomaso, dieci anni, che si era occupato di altre persone e questo lo aveva ferito così tanto che era deciso a ferire gli altri e a far sì che lo odiassero. Infine arrivò Claudia, la ragazzina dodicenne dell’alta borghesia, brillante e capace che aveva dovuto lasciare la sua scuola privata cattolica quando si era scoperto che era incinta. Questo è il racconto dell’orrenda realtà dei bambini maltrattati, ma anche delle straordinarie possibilità di recupero che la psicologia, la sensibilità e l’amore possono aprire.”

A coloro che decideranno di conoscere i Figli di nessuno, invito anche a consultare il sito internet dell’autrice (il cui link, come sempre, potrete trovare a fine articolo), in cui vengono riportate anche le notizie su come questi bambini, ormai adulti, vivono oggi.

Se anche una sola persona deciderà di capire e leggerà questo o un altro dei libri di Torey Hayden saprò che il tempo speso a creare questo blog non sarà stato sprecato.

TRAMA

La classe si creò da sé.

C'è una vecchia legge della fisica che parla dell'orrore che la Natura ha per il vuoto. Quell'autunno, a quanto pare, la Natura era entrata in azione. Doveva esserci un vuoto che non avevamo notato, perché d'un tratto, senza che nessuno avesse programmato nulla, cominciò a formarsi una classe. Il vuoto non si colmò di colpo, come a volte succede, ma lentamente, come avviene ogni volta che la Natura crea qualcosa di grande.

In agosto, all'inizio dell'anno scolastico, lavoravo come insegnante di sostegno in una scuola elementare. I bambini con maggiori difficoltà di apprendimento lasciavano la loro classe per mezz'ora al giorno e venivano da me, da soli o in gruppetti di due o tre. Il mio compito era quello di tenerli il più possibile al passo con la loro classe, soprattutto nella lettura e in matematica, ma qualche volta anche in altre materie. Una classe mia, però, non ce l'avevo.

Lavoravo in quel distretto scolastico da sei anni, quattro dei quali li avevo dedicati all'insegnamento in una classe chiusa, come la chiamavano gli educatori: un corso che si svolgeva in un'unica aula, dove i bambini non potevano interagire con gli altri alunni della scuola. Allora insegnavo ai bambini con gravi problemi di instabilità emotiva. Poi era arrivata la Legge 94- 142, nota come legge d’integrazione, che si prefiggeva di inserire gli alunni della scuola speciale in un ambiente che fosse il meno chiuso possibile e di ridurre al massimo le loro lacune con lezioni supplementari, i corsi di sostegno. Le classi chiuse, dove i bambini speciali erano tenuti a distanza da quelli normali, sarebbero sparite. E così sparivano le classificazioni. Che bella legge. Che begli ideali. E intanto, i miei bambini e io eravamo intrappolati nella realtà.

Quando la legge fu approvata, il mio corso chiuso venne smantellato. I miei undici alunni, insieme ad altri quaranta handicappati gravi del distretto, vennero integrati nelle classi normali. Rimase aperta una sola classe speciale a tempo pieno, quella per ritardati gravi, bambini che non camminavano, non parlavano, o non avevano il controllo delle funzioni fisiologiche.

Mi fu assegnato un corso di sostegno in una scuola dall'altra parte della città, la stessa alla quale aveva fatto capo la mia classe speciale. Questo era successo due anni prima. Forse avrei dovuto accorgermi del vuoto che si stava creando. Forse non avrei dovuto sorprendermi, quando vidi colmarsi quel vuoto.

Stavo scartando il mio pranzo, un Big Mac di MacDonald's, un vero e proprio banchetto, per me, dal momento che nella mezz'ora di intervallo per il pranzo non avevo certo il tempo di montare in macchina e attraversare tutta la città per prendere un hamburger, come facevo quando insegnavo alla vecchia scuola. Questo me l'aveva portato Bethany, una psicologa della scuola. Lei capiva la mia hamburger-dipendenza.

Stavo appunto estraendo il mio hamburger dal contenitore di polistirolo, facendo bene attenzione a non far uscire la valanga di lattuga, come sempre mi succedeva, e cercando, per l'ennesima volta, di ricordare quella canzoncina idiota che fa: <Due polpette di puro manzo...> Non pensavo al lavoro.

<Torey?>

Alzai gli occhi. Birk Jones, direttore distrettuale delle classi speciali, giganteggiava sopra di me, la pipa spenta che gli pendeva dalle labbra. Ero così concentrata sul mio hamburger che non l'avevo nemmeno sentito entrare nella sala insegnanti.

<Oh, salve, Birk.>

<Hai un minuto?>

<Sì, certo>, dissi, anche se in realtà non ce l'avevo. Mi era rimasto soltanto un quarto d'ora per trangugiare l'hamburger e le patatine, bere la mia Dr. Pepper e tornare alla pila di compiti ancora da correggere che mi aspettava in classe. La lattuga scivolò fuori dal Big Mac e mi cadde sulle dita.

Bethany spostò la sua sedia e Birk si sedette fra noi due.

<Ho un piccolo problema, e speravo che tu potessi aiutarmi a risolverlo>, mi disse.

<Ah sì? Che genere di problema?>

Si tolse la pipa di bocca e ne scrutò il fornello. <Sette anni, suppergiù.> Scoprì i denti. <È all'asilo di Marcy Cowen. Un maschietto. Autistico, credo. Sai com'è, piroette, giri vorticosi Parla da solo. Le stesse cose che facevano i tuoi bambini. Marcy non ce la fa più. L'ha avuto in classe anche l'anno scorso, per un po', e il bambino non è migliorato per niente, nemmeno con l'aiuto di un assistente qualificato. Dobbiamo cambiare tecnica, con lui.>

Continuai a masticare assorta il mio hamburger. <E che cosa potrei fare, io, per aiutarti?>

<Be'...> Lunga pausa. Mi guardava tanto intensamente, mentre mangiavo, che pensai di dovergli forse offrire un po' del mio hamburger. <Be', Tor, ho pensato che... forse potremmo farlo venire qui.>

<Che vuoi dire?>

<Potresti occupartene tu.>

<Io, occuparmi di lui?> Una patatina mi si bloccò in gola.

<In questo momento non sono attrezzata per occuparmi di bambini autistici, Birk.>

Lui arricciò il naso e si chinò verso di me, con aria confidenziale. <Tu potresti farcela. Non credi?> Fece una pausa, per vedere se rispondevo o morivo soffocata dalla mia patatina. <Verrebbe soltanto per mezza giornata. All'asilo segue le classi regolari. E nella classe di Marcy non combina niente. Pensavo che forse potresti fargli delle lezioni speciali. Come facevi con gli altri ragazzini che avevi.>

<Ma, Birk... Io non ho più quella classe. Adesso insegno materie di studio. E i bambini del mio gruppo di sostegno?>

Scrollò le spalle affabilmente. <In qualche modo li sistemeremo.>

Il ragazzino sarebbe arrivato ogni giorno alle 12,40. Fino alle due, dandosi il cambio, ci sarebbero stati anche gli altri bambini in classe, ma poi saremmo stati soli, lui e io, con metà della giornata scolastica davanti a noi. L'idea di Birk era che se anche avesse distrutto la mia aula, durante le ore di sostegno con gli altri bambini, non sarebbe stato poi tanto peggio che se avesse distrutto l'asilo di Marcy Cowen. Avendo lavorato per anni nei corsi chiusi, io possedevo quella cosa misteriosa che Birk chiamava esperienza. Tradotto, significava semplicemente che nulla poteva più turbarmi.

Preparai la stanza per l'arrivo del ragazzino. Misi al riparo gli oggetti fragili, ficcai in un ripostiglio tutti i giochi fatti di pezzi piccoli, che avrebbe potuto ingoiare, e spostai i banchi e i tavoli per poter avere con lui un contatto più intimo di quanto di solito dovevo avere con i miei alunni dei corsi di sostegno.
Terminato il lavoro, indietreggiai di un passo per valutare l'opera, e mi si allargò il cuore. Insegnare nei corsi di sostegno non era particolarmente gratificante. La classe chiusa mi mancava. Avrei voluto avere ancora una classe mia, con i miei bambini. Ma soprattutto, mi mancava quella gioia misteriosa che sempre mi dava lavorare con i bambini emotivamente instabili.

Il lunedì della terza settimana di settembre conobbi Boothe Birney Franklin. Sua madre lo chiamava Boothe Birney anche quando si rivolgeva a lui. La sorellina, di tre anni, arrivava soltanto a pronunciare Boo. Pensai che questo poteva bastare anche a me.

Boo aveva sette anni. Era un bambino magico, come spesso mi parevano magici i miei bambini. Nella sua espressione c'era la stessa ingannevole concretezza dei sogni. Figlio di una coppia mista, aveva la pelle color té al latte. I capelli erano una massa enorme di morbidi riccioloni quasi neri. Gli occhi erano verdi, un verde fosco e misterioso, un verde mare, delicato e cangiante. Sembrava uscito da un libro illustrato di Tasha Tudor. Non era molto cresciuto, per avere sette anni. Gliene avrei dati cinque, forse, non di più.

La madre lo spinse in classe, mi disse qualche parola e se ne andò. Boo, adesso, apparteneva a me.

  La formazione napoletana che salutò l'arrivo del nuovo millennio pubblicando l'album "que vendrà"La vida La prim...

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La formazione napoletana che salutò l'arrivo del nuovo millennio pubblicando l'album "que vendrà"La vida

La prima vita dei 99 Posse durò dal 1991 fino al 2001. Poi lo stop, e la reunion nel 2009. Il gruppo napoletano è tutt'ora in attività e lo scorso aprile ha pubblicato il singolo "Comanda la gang". Ma facciamo un passo indietro, fino al maggio del 2000 quando esce l'album "La vida que vendrà", l'ultimo pubblicato prima che i membri della formazione napoletana si stringessero la mano e prendessero strade diverse. Per celebrare il compleanno del frontman dei 99 Posse, Luca Persico in arte 'O Zulu che nella giornata di oggi compie 51 anni, ripubblichiamo la recensione del disco di Laura Centemeri che uscì sulle nostre pagine.

Sono molto avanti i 99 Posse, rispetto alla media di quello che si produce musicalmente in Italia. Lo dimostrano con questo album dal sound decisamente all'avanguardia nell'elettronica, abbinato a testi che sono ora fotografie senza censure di storture sociali, ora analisi sociologiche degne di un manuale. Una combinazione - quella tra un suono che pesca dal meglio dell' avanguardia internazionale, e testi che dipingono la realtà di un paese pieno di contraddizioni, come l'Italia - che è una vera boccata di aria fresca, in un panorama musicale che tende sempre più al ripiegamento su temi minimalisti, all'autoreferenzialità, all'individualismo e alla smussatura, anche musicale, degli spigoli e delle occasioni di conflitto.

Lo scontro non spaventa i 99 Posse: è la loro quotidianità di musicisti per cui la musica è il supporto di un messaggio di critica al sistema. Ma, badate bene, nonostante la musica sia un mezzo, non è mai sacrificata né messa in secondo piano. E' un tutt'uno con il suo messaggio, e, a sua volta, propone un recupero di ispirazioni che vengono dal passato mescolate con la modernità più spinta, a testimonianza che è possibile essere parte integrante del mondo di oggi senza perdere di vista quei valori di libertà, uguaglianza, fraternità, oggi messi a rischio da uno sviluppo che - lo dice anche il Papa, non solo i vetero-comunisti - mette a rischio la dignità dell' individuo.

Il discorso che i 99 Posse sviluppano in questi 74 minuti di musica vuole parlare a un pubblico ampio, a chiunque, in fondo, si trovi oggi a disagio in una società governata sempre più dalle regole dei sondaggi e del marketing.

Un mondo che ha perso la memoria di parole che per i 99 Posse, invece, non sono mai state così attuali. Si parte con il trascinante prologo di "Comincia adesso" ("Comincia adesso a gridare tutta la rabbia che c'hai nel corpo no, non la trattenere, comincia adesso a ricordare, ancora non è troppo tardi per incominciare il futuro"); per poi trovarsi immersi, inaspettatamente, nelle atmosfere dub di "Sfumature" che mettono in evidenza la bravura di Meg, che trasforma la sua voce in una carezza jazz. Un brano, questo, che si fa riflessivo nel testo recitato dalla voce di Zulu: "C'è il bianco, il nero e mille sfumature di colori in mezzo, e lì in mezzo siamo noi coi nostri mondi in testa tutti ostili e pericolosamente confinanti, siamo noi un po' paladini della giustizia un po' pure briganti, siamo noi spaccati e disuguali, siamo noi frammenti di colore, sfumature dentro a un quadro da finire".

Il singolo "L'anguilla" ci riporta invece ad atmosfere più tese, con le parole che si susseguono col ritmo di una mitragliata: un brano che è il manifesto di una filosofia di vita da irriducibili ("Non mi avrete mai come volete voi"). "All'antimafia", con un inizio "sceneggiato", si prende gioco a ritmo reggae dei poliziotti che trattano come criminali chi al massimo si fa una canna. Decisamente rock le sonorità di "Esplosione imminente", triste quadro della guerra tra poveri ormai in atto e testimoniata dalle richieste sempre più pressanti di "tolleranza zero".

Tra i pezzi forti dell'album, "Yankee go home" dove l'elettronica è messa al servizio di un brano chiuso da un'imperdibile campionatura della voce di Cossiga che rivendica gli accordi nucleari da lui stretti con gli Usa senza passare dal Parlamento.

Ci sono poi lo scanzonato rap di "Comuntwist", ovvero: cosa vuol dire essere oggi comunisti, e la ballata "Povera vita mia", preceduta da un canto popolare del Cilento (poi ripreso nel brano da Meg), sul lavoro che oggi non solo non è più un diritto ma fa tanti morti quanti una guerra, complice una legislatura tappabuchi (vedi il lavoro interinale) che alimenta lo sfruttamento: "Il lavoro interinale non è altro che una prestazione occasionale di lavoro manuale non qualificato, esattamente il caso in cui il rischio d'incidente sul lavoro è quintuplicato, e tutto questo non è capitato, ma è stato pensato, progettato e realizzato dal padronato, in combutta con l'apparato decisionale dello stato, per il quale la vita di un proletario non vale - non dico niente. ma sicuramente non vale il costo di un' assunzione regolare. con tanto di corso di formazione professionale".

Padronato, proletario: sono alcune delle parole che, come il termine disoccupato, si ha la tendenza oggi a evitare nei discorsi pubblici. Ma i 99 Posse non hanno paura di essere fuori moda e per questo chiudono il disco con una cover niente meno che degli Inti Illimani, anzi, con il loro inno, l 'inno di generazioni di comunisti, "El pueblo unido", riletto in chiave hip-hop, con l'augurio che "serà mejor la vida que vendrà".

fonte: https://www.rockol.it/news-726200/99-posse-compleanno-zulu-recensione-la-vida-que-vendra-video

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