Stephen Edwin King nasce il 21 settembre 1947 a Portland (Maine). Suo padre, Donald Edwin King (di origini scozzesi-irlandesi), è un impiega...

Stephen Edwin King nasce il 21 settembre 1947 a Portland (Maine). Suo padre, Donald Edwin King (di origini scozzesi-irlandesi), è un impiegato della Electrolux, ex capitano della Marina Mercantile e impegnato fino al 1945 nella Seconda Guerra Mondiale, e sua madre, Nellie Ruth Pillsbury King, una casalinga di origini modeste. Pur essendo il primogenito, i suoi genitori hanno adottato due anni prima, esattamente il 14 settembre del 1945, David Victor, che verrà però sempre considerato da King un vero fratello maggiore.

Nel 1949 il padre esce per una delle sue passeggiate e non farà più ritorno a casa, a causa di problemi familiari. Questo avvenimento segnerà profondamente il carattere del futuro scrittore, tanto che è possibile trovare in numerosi romanzi il difficile rapporto padre-figlio (fra gli altri: It, Cujo, Christine e Shining).

La famiglia comincia così a spostarsi da un luogo ad un altro: la signora Nellie Ruth King in quegli anni e nei successivi sarà spesso fuori casa per quasi tutto il giorno, impegnata in vari lavori, come stiratrice in una lavanderia, lavoratrice notturna in una panetteria, commessa e donna delle pulizie. Con il proprio lavoro riesce comunque ad assicurare ai due figli una buona educazione, guidandoli all'ascolto di buona musica ed alla letteratura; dando la possibilità a Stephen di provare a scrivere qualche storia horror. Di quegli anni, Stephen King dirà che "Non avemmo mai una macchina, ma non saltammo mai un pranzo".

L'infanzia di Stephen King viene colpita, oltre che dalla scomparsa del padre, dalla morte di un suo amico. All'età di quattro anni, i due sono impegnati a giocare vicino ad una ferrovia, quando l'amico del futuro scrittore cade sulle rotaie e viene travolto da un treno. King, in stato confusionale, torna a casa senza ricordare quanto successo.

La scuola e le prime esperienze in campo letterario.

Iscritto in prima elementare, King passa i primi nove mesi malato. Colpito prima dal morbillo, ebbe in seguito problemi con gola e orecchie. Curato da alcuni esperti, si ritira dalla scuola per volere di sua madre e passa diversi mesi in casa. È durante questo periodo che King inizia a scrivere, copiando interamente fumetti a cui aggiunge descrizioni personali. Il suo primo racconto, completamente inventato da lui, tratta di quattro animali magici a bordo di una vecchia macchina, guidati da un enorme coniglio bianco e con il compito di aiutare i bambini.

Durante questo periodo inizierà anche a leggere da solo tutto ciò che trova. A dieci anni scopre il genere horror, dopo aver visto un film sugli extraterrestri. Due anni dopo, rinviene nella soffitta della zia i libri del padre, appassionato di Edgar Allan Poe, H.P. Lovecraft e Richard Matheson, nonché appassionato scrittore. Ed è nel 1960 che King invia il suo primo racconto ad una rivista, la Spacemen, che si occupava di film di fantascienza. Il suo scritto non sarà mai pubblicato.

Un anno prima invece King inizia a scrivere per un piccolo giornale, il Dave's Rag (letteralmente, Lo straccio di Dave), giornale prodotto dal fratello maggiore di King in tiratura limitata e distribuito a vicini di casa e coetanei.

Nel 1962 frequenta la Lisbon Falls High School, a Lisbon Falls. La sua passione per i film dell'orrore e per la letteratura lo spingeranno a scrivere diversi racconti, spesso delle semplici trasposizioni dei film visti al drive-in. Questi racconti passano fra i suoi amici di scuola, e King utilizzerà la macchina da stampa del Dave's Rag per produrre delle copie stampate dei suoi racconti. In particolare, sarà il film Il pozzo e il pendolo di Edgar Allan Poe a ispirare King che, tornato a casa, realizza una trasposizione dello stesso. Prodotta poi in una quarantina di copie, la vende il giorno successivo a scuola, ma gli insegnanti, una volta scoperto quanto è successo, obbligheranno il giovane King a restituire i soldi.

Il secondo anno alle Lisbon High School, diventa direttore del giornale scolastico The Drum assieme a Danny Emond. Il giornale avrà scarso successo, ma costerà una punizione a Stephen King che, annoiato dai soliti articoli, ha l'idea di realizzare un giornale umoristico prendendo in giro i vari professori. The village vomit, nuovo nome del giornale, ha successo fra gli studenti, ma i professori non gradiranno i vari soprannomi e spediranno King in punizione per una settimana. Al termine della stessa, il giovane scrittore verrà contattato per far parte di un vero giornale, il Lisbon Enterprise, settimanale di Lisbon. Inizierà qui a scrivere riguardo ad incontri sportivi e apprenderà le tecniche di buona scrittura.

Nel 1966 viene pubblicato sulla fanzine Comics Review il primo racconto di Stephen King. Si tratta di I was a teenage grave robber, racconto in prima persona.

Università e lavoro.

Dal 1966 al 1971, King studia inglese all'Università del Maine ad Orono. Anche qui fa parte del giornale scolastico, il The Maine Campus, per cui scrive articoli nella sezione King's Garbage Truck. Per mantenersi agli studi, King lavora sia durante l'anno scolastico, sia durante le vacanze estive. Nel 1967 riesce finalmente a pubblicare su una rivista il racconto The Glass Floor a cui, qualche mese dopo, segue il romanzo La lunga marcia (The Long Walk), opera che pubblicherà molti anni dopo. Nell'estate del 1969, lavorando nella biblioteca dell'università, conosce Tabitha Jane Spruce, poetessa, laureanda in storia e sua futura sposa. Il matrimonio verrà celebrato il 2 gennaio 1971 a Old Town.

Finita l'università nel 1970, ottiene il certificato per l'insegnamento nelle scuole superiori. In un primo tempo lavorerà come benzinaio, spazzino, bibliotecario e inserviente in una lavanderia, per poi iniziare a lavorare come insegnante alla Hampden Academy in Hampden, nel Maine. Dopo la nascita della figlia Naomi Rachel nel 1971, King si trasferisce e inizia a scrivere L'uomo in fuga (The Running Man). Nel 1972 nasce un altro figlio, Joseph Hillstroom; da qui in poi seguono molti problemi, economici e di salute, legati alla dipendenza dall'alcool.

Carrie e l'inizio di King.

È durante questo periodo che Stephen King scrive il suo primo romanzo, Carrie. Grazie al successo inaspettato, i problemi economici della famiglia sono in parte ridotti. Ma è anche in questo periodo che la madre di King muore di cancro e che lo stesso scrittore si scontra con i problemi di alcol e di droga. Arriverà a pronunciare anche il discorso di addio al funerale della madre da ubriaco.[2] Grazie all'intervento dei familiari e di alcuni amici, Stephen King riuscirà ad uscire dal tunnel.

Dopo Carrie, King lascerà il posto da insegnante per dedicarsi completamente alla carriera di scrittore. Darà alle stampe un largo numero di romanzi, a partire nel 1974 con Le notti di Salem (Salem's Lot) e nel 1977 con Shining (The Shining), confermandosi definitivamente presso il grande pubblico.

Anni recenti.

Nel 2000 King pubblica una serie di novelle conosciute con il nome The plant su internet. Visto l'insuccesso, abbandona il progetto.[4]

Nel 2002 annuncia di voler smettere di scrivere.

Fino al 2003 scrive sul giornale Entertainment Weekly in una rubrica chiamata The Pop of King, riferimento a The King of Pop di Michael Jackson.

Nell'ottobre del 2005 King firma per la Marvel Comics una trasposizione a fumetti della serie La torre nera intitolata La nascita del pistolero. La serie, basata su un giovane Roland Deschain, è diretta da Robin Furth, illustrata da Jae Lee (vincitore dell'Eisner Award) e con dialoghi di Peter David. La prima uscita viene pubblicata il 7 febbraio 2007 in America, e nel marzo dello stesso anno vende oltre 200 mila copie.[5] In Italia la serie viene pubblicata mensilmente a partire dalla fine dell'agosto 2007, per un totale di quattro albi.

Sempre nel 2007, King viene premiato con il Mystery Writers of America Grand Master.

Annunciato precedentemente per il 21 giugno 2007, King pubblica il 2 ottobre il romanzo Blaze, scritto negli anni '70 sotto lo pseudonimo Richard Bachman ma mai pubblicato. Lo scrittore ha anche terminato il romanzo Duma Key, uscito a gennaio 2008, e ha scritto un romanzo assieme a John Mellencamp intitolato Ghost Brothers Of Darkland County, la cui data di pubblicazione è ancora sconosciuta. Il 21 ottobre 2008 esce la sua quinta raccolta di racconti, "Al Crepuscolo" ('Just after sunset'), contenente tredici storie.

Bibliografia.

Romanzi.

* Carrie (Carrie), (1974)
* Le notti di Salem (Salem's Lot), (1975)
* Ossessione (Rage), (1977), sotto lo pseudonimo Richard Bachman
* Shining (The Shining), (1977), originariamente Una splendida festa di morte
* L'ombra dello scorpione (The Stand), (1978)
* La lunga marcia (The Long Walk), (1979), sotto lo pseudonimo Richard Bachman
* La zona morta (The Dead Zone), (1979)
* L'incendiaria (Firestarter), (1980)
* Uscita per l'inferno (Roadwork), (1981), sotto lo pseudonimo Richard Bachman
* Cujo (Cujo), (1981)
* L'uomo in fuga (The Running Man), (1982), sotto lo pseudonimo Richard Bachman
* The Plant - Part I (1982)
* Pet Sematary (Pet Sematary), (1982)
* Christine - la macchina infernale (Christine), (1983)
* The Plant - Part II (1983)
* Il talismano (The Talisman), (1984) - scritto con Peter Straub
* L'occhio del male (Thinner), (1984), sotto lo pseudonimo Richard Bachman
* Unico indizio la luna piena (Silver Bullet), (1985)
* The Plant - Part III (1985)
* It (It), (1986)
* Gli occhi del drago (The Eyes of the Dragon), (1986)
* Misery (Misery), (1987),
* Le creature del buio (The Tommyknockers), (1987)
* La metà oscura (The Dark Half), (1989)
* L'ombra dello scorpione - edizione completa (The Stand), (1990)
* Cose preziose (Needful Things), (1991)
* Il gioco di Gerald (Gerald's Game), (1992)
* Dolores Claiborne (Dolores Claiborne), (1992)
* Insomnia (Insomnia), (1994)
* Rose Madder (Rose Madder), (1995)
* Desperation (Desperation), (1996)
* I vendicatori (The Regulators), (1996), sotto lo pseudonimo Richard Bachman
* Il miglio verde (The Green Mile), (1996)
o originariamente uscito in 6 puntate:
+ 1 - Le due bambine scomparse
+ 2 - La tana del topo
+ 3 - Le mani di Coffey
+ 4 - La strana morte di Eduard Delacroix
+ 5 - Viaggio nella notte
+ 6 - L'ultimo viaggio di Coffey
* Mucchio d'ossa (Bag of Bones), (1998)
* La bambina che amava Tom Gordon (The Girl Who Loved Tom Gordon), (1999)
* Cuori in Atlantide (Hearts in Atlantis), (1999)
* La tempesta del secolo (Storm of the Century), (1999)
* L'acchiappasogni (Dreamcatcher), (2001)
* Riding the Bullet - Passaggio per il nulla (Riding the Bullet), (2001), racconto venduto in formato multimediale e cartaceo
* La casa del buio - meglio conosciuto come "Il talismano 2: La casa del buio" (The Talisman 2: Black House), (2001), scritto con Peter Straub
* Buick 8 (From a Buick 8), (2002)
* Colorado Kid (The Colorado Kid), (2005)
* Cell (Cell), (2006)

Boston, 1° ottobre. È un bel pomerìggio di sole e, per Clayton Riddell, una giornata magnifica. E pro­prio in quell'istante il mondo finisce. A milioni, tut­ti coloro che hanno un cellulare all'orecchio impaz­ziscono improvvisamente, regredendo allo stadio di belve feroci. Un misterioso impulso irradiato dagli apparecchi distrugge infatti il cervello in un attimo, azzerando la mente, la personalità, migliaia di anni di evoluzione.


* La storia di Lisey (Lisey's Story), (2006)
* Blaze (Blaze), (2007), sotto lo pseudonimo Richard Bachman
* Duma Key (Duma Key), (2008)
* Under the Dome (pubblicazione Americana prevista per Autunno 2009)

La torre nera.

Per approfondire, vedi la voce La torre nera (serie).

* L'ultimo cavaliere (Dark Tower 1: The Gunslinger), 1982)
* La chiamata dei Tre (Dark Tower 2: The Drawing of the Three), (1985)
* Terre desolate (Dark Tower 3: The Waste Lands), (1991)
* La sfera del buio (Dark Tower 4: Wizard and Glass), (1997)
* Le piccole sorelle di Eluria (The Little Sister of Eluria), racconto contenuto nella raccolta Tutto è fatidico, (2002)
* I lupi del Calla (Dark Tower 5: Wolves of the Calla), (2003)
* La canzone di Susannah (Dark Tower 6: Song of Susannah), (2004)
* La torre nera (Dark Tower 7: The Dark Tower), (2004)

Raccolte di racconti.

* A volte ritornano (Night Shift 1978)
* Stagioni diverse (Different Seasons, 1982)
* Scheletri (Skeleton Crew, 1985)
* Quattro dopo mezzanotte (Four Past Midnight, 1990)
* Incubi e deliri (Nightmares and Dreamscapes, 1993)
* Gray Matter: and Other Stories (1993), tutti i racconti di questa raccolta sono contenuti nell'edizione italiana A volte ritornano.
* Six Stories (1997), tutte le sei storie sono contenute nella raccolta di racconti italiana Tutto è fatidico.
* The Man in the Black Suit: 4 Dark Tales (2002), tutte le quattro storie sono contenute nella raccolta di racconti italiana Tutto è fatidico.
* Tutto è fatidico (Everything's Eventual: 14 Dark Tales, 2002)
* Al crepuscolo (Just After Sunset, 2008)

Antologie.

(Antologie di autori vari che contengono racconti di Stephen King - solo titoli usciti in Italia)

* I mille volti del terrore (1978)
"I figli del grano" (raccolto in A volte ritornano)
* Orrori e incubi (1979)
"La notte della tigre" (inedito in raccolte monotematiche di S. King)
* Horroriana (1979)
"I figli del granturco" (raccolto in A volte ritornano)
* Orrore a Crouch End (1980)
"Orrore a Crouch End" (raccolto in Incubi e deliri col titolo "Crouch End")
* La scimmia (1981)
"La scimmia" (raccolto in Scheletri)
* Popsy e altri racconti (1987)
"Popsy" (raccolto in Incubi e deliri)
* Le case del brivido (1987)
"L'uomo nero" (raccolto in A volte ritornano col titolo "Baubau")
* Il colore del male (1987)
"Lo stretto" (raccolto in Scheletri col titolo "Il braccio"),
"La scimmia" (raccolto in Scheletri),
"Orrore a Crouch End" (raccolto in Incubi e deliri col titolo "Crouch End")
* In principio era il male (1988)
"Il Succhiatore Volante" (raccolto in Incubi e deliri col titolo "Il volatore notturno")
* Il libro dei morti viventi (1989)
"Parto in casa" (raccolto in Incubi e deliri)
* Visioni della notte (1989)
"I reploidi" (inedito in raccolte monotematiche di S.King),
"Scarpe da tennis" (raccolto in Incubi e deliri),
"Dedica" (raccolto in Incubi e deliri)
* L'orrore di Cthulhu (1990)
"Jerusalem's Lot" (raccolto in A volte ritornano)
* Dark Love (1995)
"Colazione a Gotham Cafè" (raccolto in Tutto è fatidico col titolo "Pranzo al Gotham Cafè")
* L'ora della paura (1997)
"Popsy"(raccolto in Incubi e deliri)
* Se mi tocchi ho un brivido (1998)
"Le rivelazioni di 'Becka Paulson" (inedito in raccolte monotematiche di S.King)
* Gatti da brivido (1998)
"Il gatto che venne dall'inferno" (raccolto in "Al crepuscolo" col titolo "Il gatto del diavolo")
* 999 - Racconti inediti per un millennio da brivido (1999)
"Il virus della strada va a Nord" (raccolto in Tutto è fatidico)
* Deviazioni - volume 4 (2005)
"Le voci delle cose" (inedito sino a quel momento in raccolte monotematiche di S.King, in seguito pubblicato nella raccolta Al crepuscolo con il titolo "Le cose che hanno lasciato indietro")
* The dark side (2006)
"Il sogno di Harvey" (raccolto in "Al crepuscolo")
* "Memoria" (2006) in "Blaze", Sperling & Kupfer, edizione speciale per "L'Espresso", 2007 (inedito in raccolte monotematiche di S. King)
* "Torno a prenderti" (2007), in Blaze, Sperling & Kupfer, 2007 (raccolto in "Al crepuscolo")

Saggi.

(Solo titoli usciti in Italia)

* Danse macabre (Danse Macabre, 1980)
* On Writing: Autobiografia di un mestiere (On Writing: A Memoir of the Craft, 2000)
* Futuro dizionario d'America (The Future Dictionary of America, come co-compilatore, 2005)

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Cell è un capolavoro del Re, dove la fantasia e la riflessione sui falsi miti del nostro tempo danno vita a una storia terribilmente plausib...

Cell è un capolavoro del Re, dove la fantasia e la riflessione sui falsi miti del nostro tempo danno vita a una storia terribilmente plausibile.

Boston, 1° ottobre. È un bel pomerìggio di sole e, per Clayton Riddell, una giornata magnifica. E pro­prio in quell'istante il mondo finisce. A milioni, tut­ti coloro che hanno un cellulare all'orecchio impaz­ziscono improvvisamente, regredendo allo stadio di belve feroci. Un misterioso impulso irradiato dagli apparecchi distrugge infatti il cervello in un attimo, azzerando la mente, la personalità, migliaia di anni di evoluzione.

Al posto dell'homo sapiens ora c'è un branco di sanguinari subumani privi della paro­la. Ma presto costoro cominciano a mutare e a orga­nizzarsi. Insieme ad altri scampati, Clayton percor­re di notte le città svuotate, in preda a un pensiero fisso: salvare la moglie e il figlio, rimasti soli nel Maine in balia di un telefonino... e conquistare al­l'umanità il diritto di coesistere con la nuova specie dominante.

Un misterioso segnale elettronico, di origine sconosciuta, diramato attraverso i telefoni cellulari di tutto il mondo, penetra nella mente degli utenti con l'effetto di devastare in un solo istante l'intero raziocinio e di ridurre larga parte della popolazione della Terra in condizioni animalesche, vittima di istinti primordiali. Alcuni sopravvissuti all'effetto dell'Impulso tentano di trovare un modo per riorganizzarsi e sottrarsi alla barbarie ed alla feroce follia dei "telepazzi" (detti nella seconda parte anche "cellulati": il termine originale è phonecrazies), ovvero delle vittime del devastante segnale telefonico.

La civiltà scivolò nella sua seconda era di tenebre su una prevedibile scia di sangue, ma a una velocità che nemmeno i futurologi più pes­simistici avrebbero potuto pronosticare. Fu quasi come se non vedesse l'ora di finirci. Il primo giorno di ottobre, Dio era nel Suo para­diso, l'indice di Borsa era a 10,140 e quasi tut­ti gli aerei erano puntuali (eccetto quelli che at­terravano o decollavano da Chicago, e c'era da aspettarselo). Due settimane dopo il cielo apparteneva di nuovo agli uccelli e il mercato azionario era un ricordo. A Halloween, tutte le metropoli del mondo, da New York a Mosca, puzzavano fino alle stelle e il mondo di prima era un ricordo.

Trama.

Il fenomeno che in seguito avrebbe preso il nome di Im­pulso ebbe inizio alle 15.03 del 1° ottobre, ora di New York. La definizione era naturalmente imprecisa, ma a dieci ore dall'evento quasi tutti gli scienziati in grado di farlo notare erano o morti o impazziti. In tutti i casi il no­me contava poco. Quello che contava era l'effetto.

Alle tre di quel pomeriggio, un giovane di non partico­lare importanza per la storia scendeva per Boylston Street, a Boston, con un passo elastico che era quasi una danza. Si chiamava Clayton Riddell. L'evidente espressione sod­disfatta che aveva sul viso s'accordava con la spigliatezza dell'andatura. Nella mano sinistra impugnava la maniglia di un portfolio da artista, di quelli che si chiudono con delle serrature a scatto e diventano una valigetta. Arrotolato alle dita della sinistra aveva il laccio di un sacchetto di plastica marrone sul quale, per chi si fosse preso il di­sturbo di leggerlo, c'era il logo piccoli tesori.

Sballottato nel sacchetto c'era un piccolo oggetto ro­tondo. Un regalo, si sarebbe pensato, e con ragione. Si sa­rebbe potuto ulteriormente azzardare che questo Clayton

Riddell fosse un giovanotto in procinto di festeggiare una piccola vittoria (o forse nemmeno tanto piccola) con un piccolo tesoro, e si sarebbe colpito di nuovo nel segno. La cosa nel sacchetto era un fermacarte di cristallo di non poco prezzo, al centro del quale era imprigionata la grigia nuvoletta di un soffione. Lo aveva comprato durante il tra­gitto di ritorno dal Copley Square Hotel alla molto più umile Atlantic Avenue Inn dove alloggiava, intimorito dal cartellino da novanta dollari legato alla base del fermacar­te e forse ancor più intimorito dalla consapevolezza che ora potesse permettersi un simile acquisto.

Consegnare la carta di credito al commesso aveva ri­chiesto un coraggio quasi fisico. Dubitava che ce l'avreb­be fatta se quel fermacarte fosse stato per sé; avrebbe bor­bottato di aver cambiato idea e sarebbe scappato dal negozio. Ma era per Sharon, a Sharon piaceva quel genere di oggetti, e gli voleva ancora bene: Forza, piccolo, faccio il tifo per te, aveva detto il giorno prima della sua partenza per Boston. Considerato il modo di merda in cui si erano trattati l'un l'altro per un anno intero, le sue parole lo ave-vano commosso. Ora desiderava commuovere lei, se fosse stato ancora possibile. Il fermacarte era una piccola cosa (un piccolo tesoro), ma era sicuro che avrebbe gradito la delicata nuvoletta grigia dentro il cristallo, come un banco di nebbia in miniatura.

L'attenzione di Clay fu richiamata dallo scampanio di un furgone dei gelati. Era fermo di fronte al Four Seasons Hotel (che era ancor più sontuoso del Copley Square), dalla parte del Boston Common, che su quel lato della strada fiancheggiava la Boylston per due o tre isolati. Le parole Mister Softee, nei colori dell'arcobaleno, erano sovrapposte a una coppia di coni gelato danzanti. Tre bambini, con gli zaini posati per terra, erano in fremente attesa. Alle loro spalle c'erano una donna in giacca e pan­taloni che teneva al guinzaglio un barboncino e due ragaz­ze con i jeans sotto l'ombelico, munite entrambe di iPod e di auricolare, ora appeso al collo per potersi parlare sotto­voce, senza risolini, di faccende assai serie.

Clay si fermò dietro di loro, trasformando quello che era stato un piccolo gruppo in una breve coda. Aveva com­perato un regalo alla moglie separata; prima di tornare a casa si sarebbe fermato da Comix Supreme a prendere l'ultimo numero di Spiderman per il figlio; poteva pensare un poco anche a sé. Non vedeva l'ora di dare la notizia a Sharon, ma non avrebbe potuto contattarla finché non fos­se rincasata, verso le quattro meno un quarto. Pensava di trattenersi all'/nn almeno fino al momento di parlarle, più , che altro passeggiando avanti e indietro negli angusti con fini della sua stanzetta e lanciando occhiate al suo portafoglio chiuso. Nel frattempo Mister Softee gli offriva un accettabile diversivo.

L'uomo servì i tre bambini, due gelati con il bastoncino e un'incredibile piramide di cioccolato e vaniglia nel nel mezzo. Mentre la ragazzina estraeva banconote da un dollaro appallottolate dalla tasca dei Jeans larghi alla moda, la signora con il barboncino e l'a­bito da donna in carriera infilò la mano nella borsa appesa alla spalla, prese il cellulare - le signore vestite da donne in carriera non sarebbero uscite di casa senza - e lo aprì. Dietro di loro, nel parco, un cane abbaiò e qualcuno gridò. A Clay non sembrò un grido gioioso, ma quando si girò a guardare vide solo qualche passante, un cane che trotterel­lava stringendo tra i denti un frisbee (ma non devono esse­re al guinzaglio? si chiese), una distesa di verde soleggia­to e oasi di ombra invitante. Gli sembrò un ottimo posto dove un uomo che aveva appena venduto il suo primo ro­manzo a fumetti - nonché il suo seguito, entrambi per una somma sbalorditiva - avrebbe potuto andare a sedersi a mangiare un cono di gelato al cioccolato.

Quando tornò a guardare dall'altra parte, i tre bambini se ne erano andati e la signora con l'abito da donna in car­riera stava ordinando una coppa guarnita. Una delle due ragazze dietro di lei aveva un telefonino rosa agganciato al fianco e la rampante in carriera aveva il suo incollato al­l'orecchio. Come gli accadeva quasi ogni volta in cui era testimone di una delle mille varianti di quel comporta­mento, Clay riflette che stava assistendo a un gesto che, se fino a poco tempo prima sarebbe stato giudicato di una maleducazione quasi intollerabile, seppure nel corso di una marginale transazione con un perfetto sconosciuto, stava ormai diventando un'accettabile ricorrenza della quotidianità.

Mettilo in Dark Wanderer, tesoro, disse Sharon. La Sharon che conservava nella mente parlava spesso ed era prevedibile che dicesse la sua. Tanto era vero anche della Sharon reale, con o senza separazione. Non però chia­mandolo sul cellulare. Clay non l'aveva.
Il telefonino rosa intonò quel motivetto che Johnny «mava tanto... cos'era, Axel F versione Crazy Frog? Clay non lo ricordava, l'orse perché l'aveva rimosso. La proprietaria del telefono che squillava se lo staccò dal fianco e disse: «Beth?» Ascoltò, sorrise, poi disse all'arnica: «È Beth». Allora l'altra ragazza si sporse in avanti e ascolta­rono insieme, capelli corti e sfrangiati tutte e due, pettina­ture quasi identiche (a Clay sembravano quasi personaggi di un cartone del sabato mattina), accarezzati dallo stesso venticello pomeridiano.

«Maddy?» disse quasi contemporaneamente la donna in completo.

Il suo barboncino era ora seduto in un atteg­giamento contemplativo all'estremità del suo guinzaglio (il guinzaglio era rosso con i brillantino, a osservare il traffico di Boylston Street. Sull'altro lato della strada, al Four Seasons, un portiere in uniforme marrone - sembra­va che dovessero essere sempre o marrone o blu - agitava il braccio, probabilmente per fermare un taxi. Un caratteristico anfibio Duck Boat, stipato di turisti, altussimo e im­probabile sulla terraferma, veleggiò via con il conducente che gridava nel megafono qualcosa di argomento storico. Le due ragazze che ascoltavano il telefonino color menta si guardarono e sorrisero per qualcosa che stavano uden­do, però ancora senza ridacchiare.


«Maddy? Mi sentì? Mi sentì...»

La donna in carriera alzò la mano in cui stringeva il Sguinzaglio e si ficcò il dito, con l'unghia lunga, nell'orecchio libero. Clay rabbrividì temendo per il suo timpano. Immaginò di disegnarla: il cane al guinzaglio, il completo e pantaloni, i capelli corti alla moda... e un rivolino (li sangue intorno al dito nell'orecchio. La Duck Boat sul margine e il portiere in secondo piano, tutte quelle cose che danno verosimiglianza a una vignetta. Sì, era quel che voleva.

«Maddy, non ti ricevo! Volevo solo dirti che mi sono fatta fare i capelli da quel nuovo... i miei capelli?... I MIEI...»

Il tizio sul furgone si protese a porgerle la coppa guar­nita: un Monte Bianco dalle pendici solcate da cioccolato e crema di fragola. La sua faccia ruvida di barba non rasa­ta era impassibile. Diceva che aveva già visto tutto quanto, e perlomeno due volte. Clay ne era certo. Nel parco qual­cuno gridò. Clay si girò di nuovo a guardare dicendo a se stesso che era stato un grido di gioia. Alle tre del pomerig­gio, un pomeriggio di sole al Boston Common, non pote­va non essere un grido di gioia. Giusto?

La donna disse a Maddy qualcosa di incomprensibile e richiuse il cellulare con un esercitato colpo del polso. Lo lasciò ricadere nella borsetta, poi rimase lì, come se aves­se dimenticato che cosa stesse facendo o forse persino do­ve si trovasse.

«Fanno quattro e cinquanta», disse il gelataio che anco­ra le porgeva pazientemente la coppa. Clay ebbe tempo di riflettere su quanto tutto in città fosse così schifosamente costoso. Forse lo aveva pensato anche la signora vestita da donna in carriera - almeno tale fu la sua prima impressio­ne - perché per un momento ancora non fece niente, restò lì a guardare la montagna di gelato e sciroppo gocciolante come se non avesse mai visto niente del genere.

Poi dal Common giunse un altro grido, questa volta non umano, un verso che stava a metà tra un guaito di sor­presa e uno gnaulio di dolore. Clay si girò a guardare e vi­de il cane che prima trotterellava con il freshbee in bocca. Era bruno, di dimensioni discrete, forse un Labrador, lui non conosceva bene i cani, quando aveva bisogno di dise­gnarne uno lo copiava da un libro. Accanto a lui c'era un uomo in giacca e cravatta inginocchiato, lo teneva prigioniero per il collo e sembrava che gli stesse - no, non sto vedendo quello che credo di vedere, pensò Clay - masti­cando un orecchio. Poi il cane guai di nuovo e cercò di di­vincolarsi. L'uomo in giacca e cravatta lo tenne fermo, e sì, era proprio l'orecchio del cane, quello che aveva in bocca l'uomo, e mentre Clay continuava a guardare, glie­lo strappò dalla testa. Questa volta il cane lanciò un grido quasi umano e alcune anatre che nuotavano nel laghetto poco distante si alzarono in volo starnazzando.

«Rasi!» gridò qualcuno dietro Clay. Così gli era sem­brato. Poteva anche essere una parola di senso compiuto, però ciò che successe dopo lo spinse a propendere per rast: non un vocabolo, ma piuttosto un'espressione inarti­colata di aggressività.

Tornò a guardare il furgone dei gelati in tempo per ve­dere la signora tuffarsi sul bancone nel tentativo di ag­guantare il gelataio. Riuscì ad acchiappare un lembo della sua casacca bianca, ma bastò l'unico passo all'indietro S Che lo stupore lo spinse a compiere, perché lei perdesse la [presa. I suoi tacchi alti si staccarono brevemente dal marciapiede e Clay udì il fruscio del tessuto e il tintinnio dei bottoni della sua giacca che strisciavano prima all'insù e all'ingiù contro il bordo. La coppa finì chissà dove, Clay vide una macchia di gelato e sciroppo sul polso e l'avambraccio sinistro della donna. La vide vacillare, flettere I ginocchia. L'espressione refrattaria era stata sostituita da una smorfia contratta ohe le aveva stretto gli occhi in due fessure e messo in mostra entrambe le arcate dei denti. Il suo labbro superiore si era rovesciato completamente all'infuori, scoprendone l'interno vellutato e rosa, intimo come una vulva. Il suo barboncino scappò nella via, trascinando dietro di sé il guinzaglio rosso con in fondo il suo cappio. Sopraggiunse una limousine nera e travolse il barboncino prima che fos­se arrivato al centro della strada. Un batuffolo un attimo prima; budella un attimo dopo.

Povera bestiola, probabilmente stava già abbaiando nel paradiso dei cani prima ancora di capire che era morto, pensò Clay. Clinicamente si rendeva conto di essere in stato di choc, ma questo non cambiava minimamente la profondità del suo sbalordimento. Era fermo lì, con il portfolio in una mano, il sacchetto marrone nell'altra e la bocca spalancata.

Da qualche parte, gli sembrò forse dietro l'angolo di Newbury Street, esplose qualcosa.

Sopra gli auricolari dei loro iPod, le due ragazze ave­vano tagli di capelli esattamente identici, ma quella con il cellulare rosa era bionda, mentre la sua amica era bruna; erano Pixie Chiara e Pixie Scura. Ora Pixie Chiara lasciò cadere il telefonino sul pavimento dove si ruppe e afferrò la signora in abito da donna in carriera prendendola per la vita. Clay pensò (per quanto capace fosse in quei frangen­ti di pensare qualcosa) che intendesse impedirle o di ten­tare di assalire nuovamente il gelataio o di precipitarsi in mezzo alla strada a soccorrere il cane. Ci fu persino una parte della sua mente che lodò la presenza di spirito della ragazzina. La sua amica, Pixie Scura, indietreggiava al­lontanandosi dalla scena con le manine bianche strette tra i seni e gli occhi strabuzzati.

Clay mise giù i suoi carichi, uno per parte, e fece un passo in avanti per dare una mano a Pixie Chiara. Sull'al­tro lato della via, cosa che scorse soltanto nella sua visione periferica, un'automobile sterzò e balzò sul marciapie­de davanti al Four Seosons, costringendo il portiere a to­gliersi precipitosamente di mezzo. Davanti all'albergo si alzarono altre grida. E prima che Clay potesse solo co­minciare ad aiutare la ragazzina con la signora vestita da donna in carriera, Pixie Chiara aveva proteso il bel faccino con la velocità di un serpente, aveva scoperto i giovani denti senza dubbio forti e li aveva affondati nel collo della signora vestita da donna in carriera. Ci fu un enorme getto di sangue. La ragazza vi immerse il viso, diede l'impres­sione di volerselo lavare con quel sangue, forse persino di berne (Clay era quasi sicuro che lo stesse facendo), poi scrollò la signora vestita da donna in carriera avanti e in­dietro come una bambola. La donna la superava in statura e doveva pesare almeno una quindicina di chili di più, ma l'altra la scosse abbastanza forte da farle andare su e giù la testa e spargere all'intorno altro sangue. Contempora­neamente rivolse la faccia imbrattata di rosso al limpido ciclo d'ottobre e lanciò un ululato che sembrò di trionfo.

È pazza, pensò Clay. Completamente pazza.

«Chi sei?» gridò Pixie Scura. «Cosa sta succedendo?»

Udendo la voce dell'amica, Pixie Chiara girò brusca-, mente la testa insanguinata. Gocce rosse le cadevano dalle I corte punte dei capelli sopra la fronte. Gli occhi che guardavano dalle orbite chiazzate erano come lampade bianche.

Pixie Scura guardava Clay con gli occhi sgranati. «Chi | lei?» ripetè... e poi: «E io chi sono?»

Pixie Chiara lasciò andare la signora vestita da donna In carriera, che crollò sul selciato con la carotide squarcia­ta che ancora eruttava, poi si gettò sulla ragazza con la quale solo pochi istanti prima condivideva amichevol­mente il telefonino.
Clay non pensò. Se avesse pensato, Pixie Scura si sa­rebbe forse ritrovata con la gola aperta come la signora in giacca e pantaloni. Nemmeno guardò. Abbassò semplice­mente la mano destra, afferrò l'estremità superiore del sacchetto di plastica di piccoli tesori e lo scagliò contro la nuca di Pixie Chiara nel momento in cui la ragazza spiccava il salto sull'ex amica con le mani protese come un orso che pesca sullo sfondo del ciclo azzurro. Se aves­se mancato il bersaglio...
Non lo mancò e nemmeno lo prese di striscio. Il ferma­carte di cristallo dentro il sacchetto colpì in pieno la testa di Pixie Chiara producendo un sordo rintocco. Pixie Chia­ra lasciò ricadere le mani, una insanguinata, l'altra ancora pulita, e cadde come un sacco di patate sul marciapiede davanti all'amica.

«Che diavolo succede?» urlò il gelataio. Il registro del­la sua voce era di un'altezza improbabile. Forse lo choc glielo aveva modificato.

«Non lo so», rispose Clay. Gli martellava il cuore. «Mi aiuti, presto. Questa sta morendo dissanguata.»

Da dietro, in Newbury Street, giunse l'inconfondibile fracasso di un'automobile che si schianta, seguito da grida di orrore. Alle grida seguì un'altra esplosione, più forte di quella precedente, che fece tremare il giorno come un col­po di maglio. Dietro il furgone dei gelati un altro veicolo sterzò, attraversò tre corsie di Boylston Street e si fiondò verso la facciata del Four Seasons, falciando un paio di passanti e andando quindi a cozzare contro il retro del­l'automobile precedente, che aveva concluso la sua corsa con il muso incastrato nella porta girevole. Il secondo urto fece avanzare ulteriormente il primo veicolo fino a schiac­ciare sui due lati la porta. Clay non poteva vedere se ci fosse qualcuno intrappolato nel meccanismo, perché dal radiatore squarciato della prima macchina scaturivano dense nuvole di vapore, ma le grida di dolore che giunge­vano da là dentro non promettevano niente di buono. Pro­prio niente.

Il gelataio, che da quella parte non poteva vedere, si I stava sporgendo dal finestrino per rivolgersi a Clay. «Che succede là dietro?»

«Non lo so. Un tamponamento. C'è gente che si è fatta male. Non pensiamoci ora. Mi dia una mano.» Si inginoc­chiò di fianco alla signora nel sangue e tra i frammenti del telefonino rosa di Pixie Chiara. Gli spasmi della signora in abito da donna in carriera erano ormai molto deboli.

«C'è del fumo in Newbury Street», osservò il gelataio, che ancora non aveva abbandonato la relativa protezione del suo furgone. «Laggiù è saltato in aria qualcosa. Roba grossa. Forse è un attentato.»

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Maggio 1993: in Algeria i fondamentalisti islamici uccidono quattro suore. La Quinta Donna massacrata è una turista svedese. La polizia alge...

Maggio 1993: in Algeria i fondamentalisti islamici uccidono quattro suore. La Quinta Donna massacrata è una turista svedese. La polizia algerina cerca di insabbiare il caso.

Settembre 1994: una serie ili orribili delitti scuote il sud della Svezia. Un anziano signore, appassionato bird-watcher che si diletta di poesia, cade in una trappola feroce. Il suo corpo viene ritrovato in pasto ai corvi, trapassato da canne di bambù.

Qualche giorno dopo, nel bosco, legalo a un albero si scopre il cadavere di un fiorista, un amabile cultore di orchidee. È stato strangolato.

Non passa molto tempo che il corpo senza vita di un ricercatore dell'università riaffiora, chiuso in un sacco, tra le acque di un lago.

Omicidi crudeli, perpetrati con una tecnica che non lascia dubbi sull'esistenza di un unico colpevole. Apparentemente non esiste un movente, né s'intravedono elementi che permettano di trovare una relazione tra le vittime.

Tocca ancora all'ispettore Wallander, del distretto di Ystad, aprire un faticoso spiraglio tra le indagini e mettere insieme i pezzi di una storia incredibile. Aiutato da una collega molto efficiente, Kurt Wallander scoprirà quale sconcertante filo leghi il passalo degli uomini caduti per mano di un oscuro assassino.

La quinta donna non è solo un giallo appassionante, è anche un fine romanzo sulla complessa psicologia del rapporto tra uomini e donne, un'acuta analisi di una società che ha perduto I'innocenza di un tempo e si confronta ogni giorno con crimini brutali.


Trama.
Quella notte, quando erano venuti per compiere la loro sacra missione, era stata molto calma.

Solo più tardi, il più giovane dei quattro uomini, quello che si chiamava Farid, aveva ricordato che neppure i cani avevano reagito abbaiando. Anche loro erano stati avvolti dalla dolcez­za della notte e dalla debole brezza che soffiava dal deserto. Avevano aspettato il calare delle tenebre.

L'auto che li aveva portati dalla lontana Algeri a Dar Aziza, il punto di incontro, era una vecchia carretta con le sospensioni agonizzanti. L'au­tista non aveva aperto bocca per tutto il viaggio.

Erano stati costretti a interrompere il viaggio due volte. La prima per una foratura alla ruota posteriore sinistra, quando non erano anco­ra arrivati a metà strada.

Farid, che non aveva mai messo piede fuori dalla capitale, si era seduto appoggiandosi a un masso ai bordi della strada. Era rimasto a fissare affascinato l'immenso cielo stellato mentre gli altri erano indaffarati intor­no all'auto. Il copertone che non aveva praticamente più bat­tistrada aveva ceduto a un paio di chilometri a nord di Bou Saada. Ebbero non pochi problemi a svitare i bulloni arruggi­niti e a montare la ruota di scorta.

Dagli spezzoni di conver­sazione degli altri, Farid aveva capito che erano in ritardo e che non avrebbero avuto il tempo di fermarsi per mangiare. Avevano ripreso il viaggio. Non lontano da El Qued, il motore si era fermato di colpo. Persero quasi un'ora prima di riuscire a localizzare il guasto e ripararlo.

Il loro capo, un uomo alto e pallido sulla trentina con una corta barba, aveva negli occhi quell'intensità e fervore che solo chi era stato chiamato dal Profeta poteva avere. Farid non sapeva il suo nome. E cono­scendo le regole di segretezza non si era nemmeno sognato di chiedere chi fosse e da dove venisse.


Non sapeva neppure i nomi degli altri due.

Conosceva solo il proprio nome.

L'auto era ripartita. Il buio si era fatto più intenso. Aveva­no dell'acqua da bere ma niente da mangiare. Quando final­mente arrivarono a El Qued tutto era calmo intorno. Si erano addentrati nel labirinto di strade anguste e si erano fermati vicino alla piazza del mercato. Appena scesero, l'auto scom­parve. La figura di un uomo era apparsa come dal nulla. Senza parlare, aveva fatto un cenno al loro capo e i quattro lo avevano seguito.

Fu solo allora, mentre camminavano veloci nel buio di stra­de sconosciute, che Farid aveva iniziato a pensare seriamente a quello che avrebbero fatto entro breve tempo. Portò la mano sul manico del coltello a lama curva che teneva in una tasca dell'ampio caffettano.

Era stato suo fratello, Rachid Ben Mehidi, a parlargli per la prima volta degli stranieri. Notte dopo notte, erano rimasti seduti sul tetto piatto della casa paterna a parlare e a guardare la distesa luccicante di Algeri. Farid sapeva che suo fratello era profondamente impegnato nella lotta per trasformare il loro paese in uno stato islamico che non avrebbe seguito altre leggi se non quella del Profeta. E ogni notte gli parlava di quanto era importante che tutti gli stranieri fossero cacciati dal loro paese.

All'inizio Farid si era sentito lusingato che suo fratello gli parlasse di politica. Anche se in un primo momento non aveva capito tutto quello che gli diceva. Fu solo più tardi che si rese conto che aveva un motivo ben preciso per dedi­cargli tanto tempo. Voleva che Farid partecipasse alla cacciata degli stranieri dal paese.


Era passato più di un anno da allora. E ora, mentre Farid seguiva i quattro uomini vestiti di nero attraverso i vicoli bui dove l'aria tiepida della notte era completamente immobile, ebbe la certezza che avrebbe finalmente esaudito il desiderio di Rachid.

Gli stranieri dovevano essere cacciati. Ma non li avrebbero scortati fino alle navi o agli aerei. Sarebbero stati uccisi. E quelli che non erano ancora entrati nel paese ci avrebbero pensato due volte prima di farlo.


Farid strinse con forza il manico di avorio intarsiato del coltello. Rachid glielo aveva dato la sera prima quando si era­no salutati sul tetto della casa del padre.
Arrivati alla periferia della città, si fermarono. Il vicolo sfo­ciava in una piazza. Il ciclo stellato sopra di loro era chiaro. Rimasero nell'ombra, addossati al muro di una casa con le persiane abbassate.

Dall'altro lato della piazza, al di là di un'alta inferriata, c'era una villa dai muri di pietra. L'uomo che li aveva guidati fin là scomparve silenziosamente fra le ombre. Erano di nuovo in quattro. Tutt'intorno era il silenzio e la calma più assoluta. Farid non aveva mai provato una simile sensazione ad Algeri. Nei suoi diciannove anni di vita non era mai stato avvolto da un tale silenzio.


Neppure i cani, pensò. Neppure i cani sembrano volere rompere questo sacro silenzio.

Alcune finestre della villa davanti a loro erano illuminate.

Improvvisamente udirono il rumore di un motore. I fari asimmetrici di un autobus vetusto illuminarono la piazza per poi sparire verso il centro del paese. Tornò il silenzio.


La luce a una delle finestre si spense. Farid cercò di calco­lare quanto tempo fosse passato da quando erano arrivati nella piazza. Forse una buona mezz'ora. Aveva fame. Non aveva mangiato niente tutto il giorno. Le due bottiglie d'acqua che avevano portato con loro erano ormai vuote. Si sentiva la gola arsa. Ma non avrebbe chiesto nulla. L'uomo che li comandava si sarebbe adirato. Stavano compiendo una missione sacra, e soffrire la fame e la sete era una prova della loro fede.

Un'altra luce si spense. Qualche minuto dopo anche l'ulti­ma finestra piombò nel buio. Continuarono ad aspettare. Poi, il loro capo fece un cenno con la mano e attraversarono rapi­damente la piazza. Un vecchio con un bastone in mano dor­miva appoggiato al cancello della villa. Una sorta di guardia, pensò Farid. Il loro capo lo toccò con un piede.

L'uomo non fece in tempo ad aprire gli occhi che il capo si chinò su di lui tenendo il suo coltello sulla guancia dell'uomo. Il capo bisbi­gliò qualcosa all'orecchio del vecchio. L'uomo si alzò, Farid capì dai suoi movimenti rigidi che l'uomo era paralizzato dalla paura. Il capo fece un cenno quasi impercettibile con la testa e l'uomo si allontanò zoppicando.


Spinsero il cancello che cigolò leggermente ed entrarono nel giardino. L'aria era pervasa da un forte profumo di gelsomino misto a quello di spezie delle quali Farid non riusciva a ricordare il nome. Tutto era sempre avvolto nel silenzio. Sul­l'alta porta di ingresso della villa era affissa una targa in ottone con le parole: Ordine delle sorelle cristiane. Farid cercò di capire cosa quelle parole significassero. In quello stesso istante qualcuno appoggiò una mano sulla sua spalla. Farid trasalì e si volse. Era il capo. Gli parlava per la prima volta, così sot­tovoce che neppure la brezza notturna poteva sentire quello che stava dicendo.

«Siamo quattro» sussurrò. «Anche in quella casa sono quat­tro. Dormono, una in ogni camera. Le camere sono una di fronte all'altra in un corridoio. Sono vecchie e non opporran­no resistenza.»

Farid osservò gli altri due uomini. Avevano qualche anno più di lui. Farid ebbe la sensazione che a differenza di lui non fosse la loro prima missione. Ma si sentiva calmo. Rachid gli aveva promesso che quello che avrebbe fatto era nel nome del Profeta.

Il capo lo fissò, come se gli avesse letto nel pensiero.

«Quattro donne vivono in questa casa» bisbigliò. «Sono delle straniere che hanno rifiutato di lasciare il nostro paese di propria volontà, quindi devono morire. Inoltre sono cri­stiane.»

Ucciderò una donna, pensò Farid. Questo Rachid non glie­lo aveva detto.

E doveva averlo fatto per un solo motivo.

Non aveva alcuna importanza. Non faceva alcuna diffe­renza.

Entrarono nella casa. Non avevano avuto problemi a forza­re la semplice serratura. All'interno, l'aria era calda e stagnan­te. Uno di loro accese una torcia elettrica e illuminò la scala che portava al piano superiore. Il corridoio era illuminato dalla debole luce di una lampada. Avanzarono in un silenzio di tomba. Rimasero immobili un istante a osservare le quattro porte chiuse.

Ognuno di loro aveva estratto il proprio coltel­lo. Il capo mosse la^ testa come aveva fatto con il vecchio davanti al cancello. E venuto il momento, pensò Farid. Ora non devo avere un attimo di esitazione. Rachid gli aveva detto che doveva agire con rapidità, evitare di fissare gli occhi, con­centrarsi invece sulla gola e tagliare con un movimento rapido
e preciso.

Dopo, il ricordo di come tutto si era svolto era stato molto vago e indistinto. Forse la donna stesa sul letto sotto un len­zuolo bianco aveva i capelli grigi. Nella debole luce del lam­pione i lineamenti del suo volto erano rimasti confusi. Quan­do Farid aveva scostato il lenzuolo, la donna aveva subito aperto gli occhi. Ma prima che avesse il tempo di gridare o di capire cosa stesse succedendo, con un singolo movimento Farid le aveva tagliato la gola facendo un passo all'indietro per evitare che il sangue gli macchiasse il caffettano. Poi, senza guardarla, si era girato ed era uscito dalla stanza. Non erano passati più di trenta secondi. Involontariamente li aveva con­tati nella sua mente. Si avviò nel corridoio seguendo due degli altri quando udirono la voce bassa del quarto. Si fermarono come paralizzati.
C'era un'altra donna in una delle camere. Una quinta don­na.

Secondo le loro informazioni, non avrebbe dovuto essere in quella casa. Era un'estranea, forse in visita.

Ma anche lei era straniera, disse l'uomo che l'aveva sco­perta.
Il capo entrò nella stanza. Farid che era dietro di lui vide che la donna si era raggomitolata in posizione fetale. La sua paura sembrava vibrare nell'aria. Farid non riuscì a evitare un nodo alla gola. Sull'altro letto giaceva il corpo di un'altra don­na. Il lenzuolo era impregnato di sangue.

Poi, con un movimento rapido il capo si avvicinò al letto e tagliò la gola della quinta donna.

Uscirono dalla casa inosservati così come vi erano entrati. L'auto li stava aspettando in una delle stradine buie. Al sor­gere dell'alba erano ormai lontani da El Qued e dai corpi delle cinque donne.

Era il mese di maggio del 1993.

La lettera arrivò a Ystad il 19 agosto.

Aveva notato il timbro postale e il francobollo dell'Algeria e pensando che fosse una lettera di sua madre aveva aspettato ad aprirla. Le piaceva leggere le sue lettere con calma. Dallo spessore della busta dovevano essere molte pagine. Non aveva avuto notizie da sua madre per tre mesi e certamente aveva molto da raccontarle. Posò la busta sul tavolino del soggiorno.

Avrebbe aspettato la notte, quando tutto fosse più tranquillo. Non riusciva però a evitare un vago senso di inquietudine. Perché questa volta sua madre aveva scelto di scrivere nome e indirizzo a macchina? Scrollò il capo. Certamente la spiega­zione era nella lettera. Poco prima di mezzanotte aveva aperto la porta del balcone e si era seduta sulla sedia a sdraio fra le piante. Era una bella e calda serata di fine agosto. Forse una delle ultime di quell'anno. L'autunno scandinavo era poco lontano, in attesa. Aprì la busta e iniziò a leggere.

Solo dopo, quando aveva letto la lettera fino all'ultima riga e l'aveva posata, incominciò a piangere.

Capì subito che la lettera era stata scritta da una donna. Non era stata solo la grafia a convincerla, era stato anche qualcosa nella scelta delle parole. Lo stile con il quale una donna sconosciuta aveva cercato di comunicarle nel modo più gentile possibile quell'orribile fatto.

Ma niente aveva più valore o significato. Rimaneva solo quello che era accaduto. Niente altro.

La donna che aveva scritto si chiamava Frangoise Bertrand e apparteneva al corpo di polizia. Senza che lo avesse scritto chiaramente si capiva che aveva una qualche funzione nella commissione massacri algerina.

Era per questo che si era interessata di quello che era suc­cesso una notte di maggio nella città di El Qued, a sud-ovest di Algeri.

Così come erano descritte, le circostanze sembravano chia­re ed evidenti e totalmente agghiaccianti. Quattro suore di nazionalità francese erano state assassinate da ignoti. Con tut­ta probabilità da quei fondamentalisti che avevano deciso di cacciare dal paese tutti gli stranieri. In quel modo lo stato si sarebbe indebolito fino ad autodistruggersi. Dal vuoto di po­tere che si sarebbe venuto a creare sarebbe così nato uno stato londamentalista. Le quattro suore erano state sgozzate, gli assassini non avevano lasciato tracce, solo sangue, dappertutto nolo sangue scuro coagulato.

Mu era stata trovata una quinta donna, una turista svedese c'hf hvcvii rinnovato svariate volte il suo permesso di soggior­no nel piimi* e che per puro caso aveva fatto visita alle suore rii t'i'ti linnislii ti dormire ila loro proprio quella notte, quando
quegli uomini sconosciuti erano entrati nella casa con i loro coltelli.

Dal passaporto che avevano trovato nella sua borsetta avevano saputo che si chiamava Anna Ander, che aveva ses-santasei anni e che risiedeva legalmente nel paese. Avevano inoltre trovato un biglietto aereo aperto per la Svezia. Vista la gravita dell'uccisione delle quattro suore e dato che Anna Ander viaggiava sicuramente da sola, gli investigatori avevano deciso per motivi politici di ignorare la quinta donna. Non era mai stata in quella casa in quella notte nefasta, non aveva occupato nessun letto. L'avevano invece fatta morire in un incidente d'auto e l'avevano seppellita in una tomba senza nome nel deserto.

Tutte le sue cose e le sue tracce erano state raccolte e fatte sparire. Era stato a quel punto che Francoise Bertrand era entrata in scena. Era stata chiamata una mattina presto dal suo capo, scriveva nella lunga lettera, e le era stato ordinato di recarsi immediatamente a El Qued. La donna era già stata sepolta nel deserto. A Francoise Bertrand era stato affidato il compito di eliminare ogni eventuale traccia residua e di distruggere il passaporto e tutti i suoi averi.


Anna Ander non era mai arrivata né aveva mai soggiornato in Algeria. Cancellata da tutti i registri ufficiali avrebbe così smesso di essere un problema algerino. Ma nella casa di El Qued, Francoise Bertrand aveva trovato una borsetta che nella loro fretta gli investigatori sbadati che l'avevano prece­duta non avevano scoperto. L'aveva trovata dietro a un arma­dio senza riuscire a capire come avesse potuto esserci finita. Nella borsetta c'era una lettera che Anna Ander aveva iniziato senza sapere che non sarebbe mai riuscita a finirla. Una lettera indirizzata a sua figlia che viveva in una città chiamata Ystad nella lontana Svezia. Francoise Bertrand si scusava per avere letto quella corrispondenza privata. Si era fatta aiutare da un artista svedese alcolizzato che conosceva ad Algeri, che glie-l'aveva tradotta, senza immaginare di cosa si trattasse.

Aveva letto e riletto quelle poche righe e non aveva potuto fare a meno di sentire un acuto senso di rimorso per quello che era successo a quella quinta donna. Non solo per il fatto che fosse stata assassinata così brutalmente in Algeria, quella terra che Francoise amava con tutta la sua anima, quella terra ferita e lacerata da conflitti interni. Nella sua lettera aveva anche cer­cato di spiegare cosa succedeva nel suo paese e aveva anche parlato di sé. Suo padre era nato in I''rancia ma la sua famiglia
si era trasferita in Algeria quando era ancora bambino e lì era cresciuto. Aveva sposato un'algerina e Francoise, che era la loro primogenita, si era sentita per lungo tempo divisa tra la Francia e l'Algeria senza capire esattamente a quale paese ap­partenesse.

Ma col tempo, il periodo di incertezza era svanito e Francoise Bertrand non aveva più avuto dubbi. L'Algeria era la sua terra. E i contrasti che stavano lacerando il suo paese le procuravano un acuto senso di sofferenza. Ed era anche per questo che non voleva svilire ancora di più né il proprio paese, né se stessa, contribuendo a fare sparire quella donna, trasfor­mando la verità in un inesistente incidente d'auto e preten­dendo che Anna Ander non fosse mai stata in Algeria. Tutto ciò le aveva impedito a kingo di dormire, scriveva Frangoise Bertrand.

Alla fine la sua coscienza aveva prevalso, aveva messo da parte la sua lealtà per il corpo di polizia e si era decisa a scrivere alla figlia di quella donna per dirle tutta la verità. L'unica cosa che chiedeva in cambio era che il suo nome non fosse mai rivelato. Quello che scrivo è la pura verità, aveva scritto. Forse sbaglio a raccontare tutto questo. Ma non potevo più vivere normalmente con questo peso. Ho trovato una borsetta con dentro una lettera che una donna ha scritto a sua figlia. Ho sentito che era mio dovere inviartela e raccontare come ne sia venuta in possesso.

Questo è tutto.


Oltre alla lettera, Francoise Bertrand aveva messo nella busta il passaporto di Anna Ander.

Ma la figlia non aveva letto quella lettera che non era mai stata finita. L'aveva posata sul balcone e aveva pianto a lungo. Solo all'alba si alzò e andò in cucina. Rimase seduta per molto tempo, immobile, la mente vuota. Ma poi aveva iniziato a pensare. Improvvisamente tutto le sembrò chiaro. Si rese conto che tutti quegli anni erano stati una lunga attesa. Non lo aveva mai capito prima. Non si era mai resa conto né che stava aspettando né quale fosse l'oggetto di quell'attesa. Ma ora sapeva. Aveva una missione e non era più costretta a esi­tare per portarla a termine. Ora era arrivato il momento giu­sto. Sua madre non c'era più. Una porta si era aperta completamente.

Si alzò e andò a prendere le strisce di carta e il libro che c'erano in una scatola sotto il letto. Tornò in cucina e posò tutto sul Involo. Sapeva che vi erano esattamente quarantatré strisce di carta. Su una sola di queste aveva tracciato una croce nera.

Iniziò a piegare le strisce metodicamente, una dopo l'altra. La croce era sulla ventisettesima.

Aprì il libro e fece scorrere l'indice sulla lista di nomi. Fissò il nome che lei stessa aveva scritto e lentamente i contorni di un viso si formarono nella sua mente.
Chiuse il libro e lo ripose insieme alle strisce di carta nella scatola.

Sua madre era morta.

Le sue esitazioni erano svanite. Non era più possibile tor­nare indietro.

Decise di concedersi un anno. Per lasciare che il dolore si attutisse, e per fare tutti i preparativi necessari. Un anno e non un giorno di più.

Tornò sul balcone. Accese una sigaretta e osservò la città che stava svegliandosi.

Nubi nere di pioggia stavano avvici­nandosi dal mare.


Poco prima delle sei andò a dormire.

Era la mattina del 20 agosto 1993.
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