Con La Dodicesima Carta sono arrivate a sei le appassionanti indagini che vedono protagonisti Lincoln Rhyme e Amelia Sachs . Frutto della ...

la dodicesima cartaCon La Dodicesima Carta sono arrivate a sei le appassionanti indagini che vedono protagonisti Lincoln Rhyme e Amelia Sachs. Frutto della fantasia dell'americano Jeffery Deaver,
l'investigatore noto tanto per la sua quasi totale infermità quanto per i suoi metodi strettamente scientifici, si trova alle prese con un caso apparentemente vecchio di 150 anni: alla metà del 1800 risalgono i fatti che la sedicenne nera Geneva Settle sta studiando per una ricerca scolastica quando viene assalita nella biblioteca del Museo afroamericano di Harlem.

Il tentativo di stupro, però, si trasforma presto in diversi e reiterati tentativi di omicidio. Il movente rimane inaccessibile, almeno fino al momento in cui, fra piste e indizi falsi, dal passato riemergono prove che contribuiranno a gettare una luce chiarificatrice sul passato della famiglia di Geneva, segnando definitivamente anche il presente e il corso del suo futuro.

Lincoln Rhyme e Amelia Sachs sono tornati: la fatica annuale di Jeffery Deaver ha prodotto un nuovo thriller ambientato per lo più nel ghetto di Harlem, luogo in cui la partecipazione emotiva del lettore è così attivata da essere costretto a girare pagina velocemente, seguendo il ritmo incalzante degli eventi.

Non conosciamo il movente e neppure il mandante, ma l’assassino sì, fin dalle prime righe. Sappiamo come si chiama, come agisce, persino come ha trascorso la sua infanzia. Intuiamo i motivi che lo hanno reso così freddo e insensibile e capiamo che non si fermerà davanti a nulla. Conosciamo la vittima: una giovane nera che ha fatto dello studio l’unico mezzo per costruirsi un futuro diverso da quello che aspetta le sue compagne. E, naturalmente, conosciamo gli investigatori e i loro metodi. Non bisogna essere lettori troppo smaliziati per riconoscere uno schema predefinito: sono delitti e psicologie che abbiamo già incontrato, quelli descritti da Deaver. 

Eppure ci sono particolari che rendono il romanzo in qualche modo diverso. L’intreccio costruito in modo che diversi piani narrativi si sovrappongano, creando più di un’illusione, il continuo variare delle prospettive e delle motivazioni all’origine dei delitti, i nuovi slanci che la trama conosce dopo ogni colpo di scena, cui si aggiunge il lieve ma significativo progresso delle facoltà motorie di Rhyme, sono tutti elementi che rendono La dodicesima carta una lettura appassionante fino all’ultima pagina: una nuova lezione, dalle caratteristiche tutte americane, su come possa essere intricato e insidioso il cammino che, comunque, porta sempre alla verità. 
 
II volto bagnato di sudore e lacrime, l'uomo corre per salvar­si la vita.
"Eccolo! Eccolo là!"
L'ex schiavo non capisce bene da dove venga la voce. Dal­le sue spalle? Da sinistra o da destra? Dal tetto di una delle case decrepite che si allineano lungo queste sordide strade acciottolate? Nell'aria di luglio calda e densa come paraffi­na, l'uomo smilzo salta un cumulo di stereo di cavallo. I net­ turbini non arrivano qui, in questa parte della città. Charles Singleton si ferma presso un bancale con un'alta pila di bari­ lotti appoggiata sopra, tentando di riprendere fiato.

La detonazione di una pistola. Il proiettile si perde chissà dove. L'eco secca dell'arma da fuoco lo riporta di colpo alla guerra: quei momenti assurdi e folli in cui manteneva la sua posizione con indosso una polverosa divisa blu, puntando un pesante moschetto su uomini dalla polverosa divisa gri­gia, che a loro volta puntavano i fucili su di lui.
Adesso corre più veloce. Quelli sparano di nuovo. Anche stavolta mancano il bersaglio.
"Qualcuno lo fermi. Cinque dollari in oro per chi lo prende."


Ma i pochi già per strada a quest'ora, irlandesi per lo più, stracciaioli o operai che se ne vanno al lavoro con le piccoz­ze e i secchi per la calce, non pensano affatto a fermare il ne­gro, che ha lo sguardo feroce, muscoli grossi e una determi­nazione spaventosa. Quanto alla ricompensa, a offrirla a gran voce è stato un poliziotto, il che significa che la promes­sa non sarà mantenuta.
Una fotografia mostrava Charles Singleton a ventotto an­ni, con indosso la divisa della Guerra Civile. Era alto e aveva mani grandi. L'uniforme tesa sul petto e sulle braccia lascia­ va intuire muscoli possenti. Labbra grosse, zigomi alti, viso tondo e pelle molto scura.
Fissando quel volto serio, con quegli occhi calmi e pene­tranti, la ragazza credette di trovare qualche somiglianza tra sé e lui. Si riconobbe nei lineamenti dell'antenato, nella rotondità del viso, nell'intensa sfumatura della pelle. Tuttavia, del fisico di Singleton le era rimasto ben poco: come le ra­gazze di Delano Project amavano farle notare, Geneva Seattle era magra quanto un ragazzine delle elementari.
Riprese a leggere, ma un rumore la interruppe. Un click nella sala. Lo scatto di una serratura? Poi dei passi. Una pau­sa. Un altro passo. Poi silenzio. Geneva guardò dietro di sé, tuttavia non vide nessuno.
Provò un brivido, ma disse a se stessa che non doveva avere paura. Erano stati i brutti ricordi a innervosirla: le ragazze di Delano che la picchiavano nel cortile della Langston Hughes High School e quella volta che Tonya Brown e la sua banda delle St. Nicholas Houses l'avevano trascinata in un vicolo e massacrata di botte, tanto da farle saltare un molare. I ragazzi erano quelli che mettevano le mani addosso, quelli che faceva­ no gli stronzi. Ma era con le ragazze che scorreva il sangue.
Falla a fette. Falla a fette, la troia...
Ancora passi. Un'altra pausa.
Silenzio.
Non che il posto fosse per sua natura rassicurante. Buio, silenzioso, con un sentore di muffa nell'aria. E non c'era nes­sun altro, non alle otto e un quarto del martedì mattina. Il museo era ancora chiuso (i turisti erano a letto o stavano fa­cendo colazione), ma la biblioteca apriva alle otto. Geneva era fuori ad aspettare già da prima: moriva dalla voglia di leggere quell'articolo.
In quel momento occupava un cubicolo in fondo a una grande sala da esposizioni, tra manichini senza volto che in­dossavano costumi dell'Ottocento. Alle pareti erano appesi dipinti di uomini e donne dai cappelli bizzarri e di cavalli dalle zampe ossute.
Alle sue spalle galoppano gli agenti a cavallo. Altri ne ap­paiono davanti a lui, agli ordini di un poliziotto con l'elmet­to in testa, che brandisce una pistola. "Alt! Fermo dove sei, Charles Singleton! Sono il capitano Walter Simms. Sono due giorni che ti cerco."
D liberto obbedisce. Le spalle forti si incurvano, le braccia pendono lungo i fianchi, i polmoni si riempiono dell'aria umida e rancida che sale dal fiume Hudson. Charles è vicino agli uffici dei rimorchiatori. Lungo il corso del fiume, vede svettare gli alberi dei velieri, a centinaia, con la loro promes­sa di libertà. Si appoggia, ansante, alla grande insegna della Swiftsure Express Company e guarda il capitano avvicinarsi. Gli zoccoli del cavallo fanno un sonoro clop, clop, clop sul­ l'acciottolato.
"Charles Singleton, sei in arresto per furto. Arrenditi, o ti prenderemo con la forza. In un caso o nell'altro, finirai in ca­ ene. Se scegli la resa non ti verrà fatto del male. Se invece scegli di resistere ne pagherai care le conseguenze. A te la de­cisione."
"Sono accusato di un crimine che non ho commesso! "
"Te lo ripeto: arrenditi o muori. Non hai altra scelta."
"Nossignore, ne ho un'altra", grida Charles. E riprende la fuga, verso il molo.
"Fermati o spariamo!" intima il capitano Simms.
Ma il liberto si lancia oltre il parapetto del molo, come un cavallo che salta un ostacolo. Per un momento sembra sospeso in aria, poi precipita per una decina di metri e si tuffa nelle acque torbide dell'Hudson, mormorando alcune paro­le: forse una preghiera a Gesù, forse una dichiarazione d'a­more alla moglie e al figlio. Qualunque cosa sia, gli inseguitori non riescono a sentirlo.

Una ventina di metri più in là, il quarantunenne Thompson Boyd fece un passo verso la ragazza dopo essersi sistemato il passamontagna sulla faccia, con i buchi in corrispondenza degli occhi. Controllò che il tamburo del revolver non si in­ ceppasse. L'aveva già fatto prima, ma nel suo mestiere non si poteva mai essere sicuri. Rimise in tasca l'arma ed estrasse lo sfollagente dal taglio praticato nel suo impermeabile scuro.
Fra lui e il tavolo del lettore di microfiche c'erano gli scaf­fali di libri della sala dei costumi. Premette le dita infilate nei guanti di lattice sugli occhi, che quella mattina bruciavano più del solito. Batté le palpebre dal dolore.
Si guardò intorno di nuovo, per assicurarsi che la sala fos­se effettivamente deserta.
Non c'erano guardiani, né lì né al piano di sotto. Non c'era­ no videocamere di sicurezza né registri dei visitatori. Tutto be­ ne. Ma qualche problema logistico c'era lo stesso. Poiché nel­ la sala regnava un silenzio di tomba e Thompson non poteva avvicinarsi in silenzio alla sua vittima, il rischio era che la ra­ gazza, sapendo che c'era qualcuno nella sala, si mettesse in al­larme.
Perciò, dopo essere entrato in quell'ala della biblioteca e avere chiuso a chiave la porta dietro di sé, si era prodotto in una risata. Thompson Boyd aveva smesso di ridere da parec­chi anni. Ma era un artigiano che capiva il potere della risata e sapeva come impiegarlo a proprio vantaggio, nel suo lavo­ ro. Una risata, un saluto amichevole e il rumore di un cellu­lare che veniva chiuso l'avrebbero di sicuro tranquillizzata, lo sapeva.
Il trucco sembrava funzionare. Sbirciò oltre la lunga fila di scaffali e scorse la ragazza concentrata sullo schermo. La vide stringere i pugni nervosamente, mentre leggeva.
Fece per avvicinarsi.
Thompson sbirciò l'ennesima volta. La ragazza, era torna­ta a sedersi e stava leggendo uno dei libri, aperto in cima alla pila. Ne aveva una dozzina davanti a sé. Con il sacchetto in cui aveva messo preservativi, taglierino e nastro adesivo nella mano sinistra e con lo sfollagente nella destra, si avviò verso di lei.
Le si avvicinò da dietro: sei metri, cinque, trattenendo il respiro.
Tre metri. Anche se si fosse voltata di scatto, ora lui avreb­be potuto raggiungerla con un balzo, rompendole un ginoc­chio o colpendola alla testa.
Due metri, uno e mezzo...
Si fermò e depose il set da stupro su uno scaffale. Afferrò lo sfollagente di lucido legno di rovere con entrambe le mani e lo sollevò in aria. Fece un passo avanti.
La ragazza, intenta a leggere, non si era minimamente ac­corta del suo aggressore, ormai a un metro da lei. Con tutte le sue forze, Thompson abbatté lo sfollagente sul berretto di maglia della ragazza.
Crack...
All'impatto sordo del legno sulla testa, una dolorosa vi­brazione si riverberò nelle mani di Thompson.
Ma qualcosa non andava. Il suono, la sensazione, non era­ no quelli giusti. Che cosa stava succedendo?
Thompson Boyd balzò all'indietro, mentre il corpo cade­ va sul pavimento.
E andava in pezzi.
Il torso del manichino cadde da una parte, la testa rotolò da un'altra. Thompson rimase a fissarlo attonito per un istante. Sulla metà inferiore dello stesso manichino era drappeggiato un vestito rigonfio, uno di quelli in mostra come esempi di abbigliamento delle donne nell'America della ri­costruzione.
No...
In qualche modo, la ragazza doveva avere intuito la mi­naccia che incombeva su di lei. Aveva sfilato i libri dagli scaffali come alibi per alzarsi, prendere un manichino, vestirne la metà superiore con là sua felpa e il suo berretto e infine si­stemarlo sulla sedia.
Ma adesso dov'era?
Il rumore dei passi in corsa era la risposta alla sua domanda.
Thompson Boyd la sentì scappare verso l'uscita di sicu­rezza. Rimise lo sfollagente nel taglio dell'impermeabile, estrasse la pistola e si lanciò all'inseguimento.
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Maya Vidal, l'adolescente protagonista del nuovo romanzo di Isabel Allende, caduta nel circuito dell'alcol e della droga, riesce a ...

Il-quaderno-di-Maya-Allende recensioneMaya Vidal, l'adolescente protagonista del nuovo romanzo di Isabel Allende, caduta nel circuito dell'alcol e della droga, riesce a riemergere dai bassifondi di Las Vegas e, in fuga da spacciatori e agenti dell'Fbi, approda nell'incontaminato arcipelago di Chiloé

In queste isole remote nel Sud del Cile, nell'atmosfera di una vita semplice fatta di magnifici tramonti, solidi valori e rispetto reciproco, Maya impara a conoscersi e a conoscere la sua terra d'origine, scopre verità nascoste e, infine, l'amore. A queste pagine si alterna il crudo racconto della sua difficile storia precedente, una vita fatta di marginalità e degrado, solitudine e cattive compagnie, nella quale precipita dopo la morte dell'amatissimo nonno. Isabel Allende torna a raccontare la vita di una donna coraggiosa in un romanzo che affronta con delicatezza le relazioni umane: le amicizie incondizionate, le storie d'amore palpabili come quelle più invisibili, gli amori adolescenziali e quelli lunghi una vita. 

Un ritmo incalzante, una prosa disincantata per questa nuova prova narrativa che si tinge di noir e per l'ennesima galleria di donne volitive e uomini capaci di amare.
La gran parte delle donne scaturite dalla penna della scrittrice cilena sono esseri indomiti, che non chiedono a nessuno il permesso di vivere, amare e sbagliare, e proprio su questa unione di carattere e fallibilità costruiscono le premesse per l'amore viscerale che lettori e lettrici provano inevitabilmente per loro.

Dalle tante protagoniste de La Casa degli Spiriti a Eva Luna, dalla Inès del romanzo eponimo alla Aurora di Ritratto in seppia, fino ad arrivare all'autrice stessa e alla figlia Paula, al centro di alcune fra le pagine più intense nella ricchissima produzione di Allende, sono le donne ad occupare il centro della scena, nei romanzi letti e amati in tutto il mondo da trent'anni a questa parte.

Prendete ad esempio Maya, la protagonista dell’ultimo Il quaderno di Maya. Qui si racconta delle peripezie di Maya Vidal, una ragazza di 19 anni con un passato più denso di avvenimenti e drammi di una soap latinoamericana. Cresciuta dai nonni, l'amatissimo Popo, e la di lui moglie Nini, Maya passa sul finire dell'adolescenza un lungo periodo a Las Vegas che definire turbolento sarebbe riduttivo.
In seguito alla morte di colui che la ragazza continuerà a chiamare "Il mio Popo", infatti, la ragazza si trova in un turbine esistenziale drammatico, che le fa smarrire tutte le coordinate e la porta a cacciarsi in grossi guai.

Grossi al punto che Nini - la nonna - non troverà altra via d'uscita che quella di spedire Maya in un arcipelago nell'estremo sud cileno, Chiloé, dove la ragazza possa trovare protezione e ospitalità in attesa di tempi migliori.

La protezione è garantita dall'isolamento che Chiloé offre a ciascuno dei suoi abitanti, essendo una terra tagliata fuori da qualsiasi rotta turistica o di interesse economico. Quanto all'ospitalità, provvederà Manuel, antropologo amico di nonna Nini, che saprà capire le molte qualità di Maya e le offrirà un lavoro. Il contrasto fra la Las Vegas dei bassifondi che Maya ha bazzicato durante la sua travagliata adolescenza e la natura primordiale, selvaggia e incontaminata di Chiloé è reso in maniera efficace dalla scrittura, e la suggestione è ulteriormente amplificata dalla scoperta di un segreto familiare custodito nell'ambiente ad un tempo edenico e minaccioso di Chiloé.

La storia di "Maya" è la risposta di Allende alle preghiere dei suoi nipotini, che le chiedevano da tempo un libro con personaggi nei quali potersi identificare, una storia che presentasse motivi di fascino anche per i ragazzi di oggi.

Ma bisogna dire che il risultato non è certo ascrivibile al filone della letteratura per ragazzi, perché molte delle situazioni vissute o rievocate da Maya nel corso del racconto sono cariche di una brutalità decisamente inadatta ad una platea di lettori giovanissimi.

È insomma, quello che abbiamo fra le mani, un classico "alla Allende", con tutti i temi cari alla scrittrice: l'esilio e il ritorno, la volontà e il carattere come viatici alla propria felicità, e - su tutto - la capacità di realizzarsi e crescere nel confronto con l'altro. 
 
Una settimana fa, all'aeroporto di San Francisco, la nonna mi abbracciò senza piangere e mi ripeté che, se avevo  a cuore la mia esistenza, non dovevo mettermi in contatto con nessuno finché non avessimo avuto la certezza che i miei nemici non mi cercavano più. La mia Nini è paranoica, come tutti gli abitanti della Repubblica popolare indipendente di Berkeley, perseguitati dal governo e dagli extra-ri, ma nel mio caso non stava esagerando: qualsiasi pre­venzione non sarebbe stata di troppo. Mi consegnò un quaderno con cento pagine perché tenessi un diario della mia vita come avevo fatto dagli otto ai quindici anni, quando ancora il destino non mi aveva girato le spalle. "Avrai tempo per te, Maya. Approfitta per scrivere delle enormi sciocchezze che hai commesso, magari in questo modo ti rendi conto della loro portata" mi disse.
Per non offenderla, misi il quaderno nello zaino, ma non avevo intenzione di usarlo, anche se qui, in effetti, il tempo si dilata e scrivere è un modo per occuparlo. Questa prima set­timana di esilio è stata lunga per me. Mi trovo su un'isoletta quasi invisibile sulla carta geografica, calata in pieno Me­dioevo. Mi risulta complicato scrivere della mia vita, perché non distinguo tra i ricordi e ciò che è frutto della mia imma­ginazione; la pura verità può risultare tediosa e per questa ra­gione, senza rendermene conto, la modifico o la enfatizzo, an­che se mi sono riproposta di correggere questo difetto e di mentire il meno possibile in futuro. Ed è così che ora, quan­do perfino gli yanomamis dell'Amazzonia usano i computer, mi ritrovo a scrivere a mano. Procedo lentamente e la mia gra­fia sembra cirillico, visto che nemmeno io riesco a decifrarla, ma immagino che pagina dopo pagina inizierà a migliorare. Scrivere è come andare in bicicletta: non lo dimentichi, per quanto passino anni senza fare pratica. Cerco di procedere in ordine cronologico, dato che un qualche ordine ci deve esse­re, e ho pensato che seguire questo mi sarebbe risultato faci^ le, ma perdo il filo, divago o mi ricordo di qualcosa di im­portante diverse pagine più avanti e non c'è più modo di inserirlo. La mia memoria si muove tra cerchi, spirali e acrobazie da trapezista.
Sono Maya Vidal, diciannove anni, sesso femminile, nu­bile, senza un innamorato per mancanza di opportunità e non perché sia schizzinosa, nata a Berkeley, California, passaporto americano, temporaneamente rifugiata in un'isola nel Sud del mondo. Mi hanno chiamato Maya perché la mia Nini ha una passione per l'India e perché ai miei genitori non è venuto in mente un altro nome, pur avendo avuto nove mesi tempo per pensarci. In indi maya significa "incantesimo, illusione, sogno". Niente a che vedere col mio carattere. Atti­lla mi starebbe meglio, perché dove passo lascio solo terra bruciata.
La mia storia inizia in Cile con mia nonna, la mia Nini, molto prima che nascessi, perché se lei non fosse emigrata all’estero, non si sarebbe innamorata del mio Popò né si sarebbe stabilita in California, mio padre non avrebbe conosciuto mia madre e io non sarei io, bensì una ragazza cilena molto diversa.
Come sono? Un metro e ottanta, cinquantotto chili, gambe muscolose, mani impacciate, occhi azzurri o grigi, secondo l'ora del giorno, probabilmente bionda, ma non ne sono certa visto che da parecchi anni non vedo il colore naturale dei miei capelli. Non ho ereditato l'aspetto esotico di nonna, con la sua pelle olivastra e quelle occhiaie scure e danno un'aria dissoluta, e nemmeno quello di mio padre, eJegante come un torero e altrettanto vanitoso; non assomiglio nemmeno a mio nonno,il mio magnifico Popò, sfortunatamente non è il mio progenitore biologico ma il secondo marito della mia Nini.
Assomiglio a mia madre, almeno per corporatura e colore della pelle, una principessa della Lapponia, come credevo prima di avere l'uso della ragione, ma una hostess danese della quale padre, pilota, s'innamorò in aria. Lui era troppo giovane per sposarsi, ma si mise in testa che quella era la donna della sua vita e la inseguì con ostinazione finché lei non accettò per stanchezza. O forse perché era incinta. Il fatto è che se ne pentirono dopo meno di una settimana.. Qualche giorno dopo quando suo marito era in volo, mia madre fece le valigie,e prese un taxi. La mia Nini era in giro per San Francisco a fare campagna contro la Guerra del Golfo, ma il mio Popò trovò il fagotto che lei gli allungò senza dargli nessuna spiegazione,prima di salire di corsa sul taxi che la stava aspettando.
La nipotina era così leggera che stava in una sola ma­no del nonno. Poco dopo la principessa  danese spedi per posta i docu­menti del divorzio e già che c'era la rinuncia all'affidamento della figlia. Mia madre si chiama Marta Otter e l'ho cono­sciuta l'estate dei miei otto anni, quando i nonni mi portaro­no in Danimarca.
Sono in Cile, il paese di mia nonna Nidia Vidal, dove l'o­ceano si mangia la terra a morsi e il continente sudamerica­no si sgrana in isole. Per essere precisi, mi trovo a Chiloé, nella regione di Los Lagos, tra il parallelo 41 e il 43, latitu­dine Sud, un arcipelago di circa novemila chilometri qua­drati di superficie e più o meno duecentomila abitanti, tutti più bassi di me. In mapudungun, la lingua degli indigeni del­la regione, Chiloé significa terra dei cahuiles, i gabbiani dal­la voce stridula e dalla testa nera, ma si sarebbe dovuta chia­mare terra del legno e delle patate. Oltre a Isla Grande, do­ve si trovano le città più popolose, ci sono molte piccole iso­le, parecchie delle quali disabitate. Alcune formano piccoli gruppi di tre o quattro e sono così vicine le une alle altre che con la bassa marea sono collegate tra loro via terra, ma non ho avuto la fortuna di finire in una di queste: vivo a quarantacinque minuti di lancia a motore, con mare calmo, dal pae­se più vicino.
Il mio viaggio dal Nord della California fino a Chiloé è iniziato sulla nobile Volkswagen gialla di mia nonna, che dal 1999 ha avuto diciassette incidenti ma corre come una Fer­rari. Sono partita in pieno inverno, in uno di quei giorni ili vento e pioggia in cui la baia di San Francisco perde i colori, e il paesaggio sembra disegnato col pennino, bianco, nero,! grigio. La nonna guidava con il suo stile, a singhiozzi, aggrappata al volante come a un salvagente, con gli occhi in­chiodati su di me più che sulla strada, intenta a darmi le ulti­me istruzioni. Non mi aveva ancora spiegato esattamente dove mi stava mandando; Cile era stata l'unica parola che mi aveva detto quando aveva progettato il piano per farmi sparire. In macchina mi rivelò i particolari e mi consegnò una picco­la guida turistica in edizione economica.
"Chiloé? Ma che posto è questo?" le domandai. "Lì ci sono tutte le informazioni di cui hai bisogno" disse indicando il libro.
"Sembra piuttosto lontano..."
"Più ti allontani e meglio è. A Chiloé ho un buon amico, Manuel Arias, l'unica persona al mondo, oltre a Mike Kelly, a cui posso chiedere di tenerti nascosta per uno o anni. "
"Uno o due anni? Ma sei impazzita, Nini?"
"Senti, ragazzina, ci sono momenti in cui non si ha il minimo controllo sulla propria vita, le cose succedono e basta, e questo è proprio uno di quei momenti" mi annunciò con il viso incollato al parabrezza, cercando di orientarsi, mentre viaggiavamo alla cieca nel groviglio di autostrade, arrivammo appena in tempo all'aeroporto e ci separammo senza troppe smancerie; l'ultima immagine che conservo e la Volkswagen che si allontana a sobbalzi nella pioggia. Viaggiai per diverse ore fino a Dallas, premuta tra il finestrino una cicciona che sapeva di noccioline tostate e poi su un aereo, che mi avrebbe lasciato a Santiago dieci ore dopo ero affamata, in preda a ricordi, pensieri e immersa nella lettura del libro su Chiloé, che esaltava le bellezze delle chiese di legno e la vita rurale.
All'improvviso apparve una valle verde, i campi seminati e in lontananza Santiago, dove sono natimia nonna e mio padre e dove vive un pezzo della storia della mia famiglia.
Del passato di mia nonna, raramente ne parla, come se la sua vita fosse iniziata solo quando conobbe il mio Popò. Nel 1974, in Cile, morì il suo primo ma­rito, Felipe Vidal, qualche mese dopo il golpe militare che ab­batté il governo socialista di Salvatore Allende e instaurò nel paese una dittatura. Rimasta vedova, decise che non voleva vivere sotto un regime oppressivo ed emigrò in Canada con il figlio Andrés, mio padre. Lui non ha potuto aggiungere mol­to a questo racconto, perché ricorda poco della sua infanzia, ma venera ancora suo padre, di cui sono sopravvissute solo tre fotografie. "Non torneremo mai, vero?" commentò An­drés sull'aereo che lo portava in Canada. Non era una do­manda, ma un'accusa. Aveva nove anni, negli ultimi mesi era maturato all'improvviso e pretendeva spiegazioni, dato che si rendeva conto che sua madre stava cercando di proteggerlo con mezze verità e mezze bugie. Aveva accettato con forza d'animo la notizia dell'improvviso attacco di cuore di suo pa­dre e il fatto che fosse stato sepolto senza che gli fosse con­cesso di vedere il corpo e di congedarsi da lui. Poco dopo si era ritrovato su un aereo diretto in Canada. "Certo che tor­neremo, Andrés" gli aveva assicurato sua madre, ma lui non le aveva creduto.
A Toronto erano stati accolti dai volontari del Comitato per i rifugiati, che li rifornirono di indumenti adeguati e li sistemarono in un appartamento ammobiliato, con i letti fatti e il frigorifero pieno. Per i primi tre giorni, finché durarono le provviste, madre e figlio rimasero rinchiusi, rabbrividendo per la solitudine, ma al quarto giorno apparve un'assistente sociale che parlava uno spagnolo discreto a informarli dei benefici e dei diritti di qualsiasi abitante del Canada. Prima di tutto ricevettero lezioni intensive di inglese e il bambino !u iscritto a scuola nella classe che gli corrispondeva; poi Nidi| riuscì a ottenere un posto come autista per evitarsi l'umiliazione di ricevere l'elemosina dallo stato senza lavorare.
Il breve autunno canadese cedette il passo a un inverni polare, stupendo per Andrés, ora chiamato Andy, che sco­prì la gioia del pattinaggio sul ghiaccio e dello sci, ma insopportabile per Nidia, che non riuscì a trovare del calore Ine a superare la tristezza di aver perso suo marito e il suo paese. Il suo stato d'animo non migliorò con l'arrivo di un'incerta primavera né con i fiori, che spuntarono come per magia in una sola notte là dove prima c'era un duro strato di neve. Si sentiva priva di radici e teneva la valigia pronta, in tesa dell'opportunità di tornare in Cile non appena fosse finita la dittatura, non potendo immaginare che sarebbe durata sedici anni.
Nidia Vidal rimase a Toronto per un paio d'anni, contando i giorni e le ore, finché non conobbe Paul Ditson II, il mio Popo, un professore dell'Università di Berkeley che era anche a Toronto per tenere una serie di conferenze su uno sfuggente pianeta, la cui esistenza cercava di dimostrare mediante calcoli poetici e salti d'immaginazione. Il mio Popò, uno dei primi astronomi afroamericani a esercitare una professione in cui la schiacciante maggioranza era bianca, era un'eminenza nel suo campo, autore di diversi libri.
Per una di quelle casualità da romanzo aveva concluso la sua visita in Cile lo stesso giorno del 1974 in cui lei era parti­ta con suo figlio per il Canada. Sono arrivata a pensare che poteva benissimo darsi che, senza conoscersi, fossero stati vi­cini in aeroporto, in attesa dei rispettivi voli, ma stando a lo­ro ciò non è possibile, perché lui avrebbe notato quella bella donna e anche lei lo avrebbe visto, perché un nero richiama­va l'attenzione nel Cile di allora, specialmente se così alto ed elegante come il mio Popò.
A Nidia fu sufficiente una mattina di guida per Toronto insieme al suo passeggero per capire che possedeva la rara combinazione di una mente brillante con la fantasia di un so­gnatore e la totale mancanza di senso pratico, che lei invece si vantava di possedere in abbondanza. La mia Nini non riu­scì mai a spiegarmi come arrivò a tale conclusione dal vo­lante dell'automobile e in mezzo al traffico caotico, ma il fat­to è che ci prese in pieno. L'astronomo sembrava sperso co me il pianeta che cercava nel ciclo; poteva calcolare in meno di un batter d'occhio quanto ci mette una navicella spaziale ad arrivare sulla Luna viaggiando a 28.286 km all'ora, ma rimaneva perplesso davanti a una caffettiera elettrica. Era da anni che lei non sentiva il vago battito d'ali dell'amore e quel l'uomo, molto diverso dagli altri che aveva conosciuto nei suoi trentatré anni, la intrigava e la attirava.
Anche il mio Popò, piuttosto spaventato dalla temerarietà con cui la sua autista guidava, provava curiosità per la donna che si nascondeva dietro una divisa troppo grande. Non era uomo da cedere facilmente agli impulsi sentimentali e se mai gli attraversò la mente l'i­dea di sedurla, la scartò immediatamente quasi fosse una seccatura. Invece la mia Nini, che non aveva nulla da perdere decise di affrontare apertamente l'astronomo
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Isabel Allende Llona (Lima, 2 agosto 1942) è una delle autrici latinoamericane di maggior successo al mondo, con libri come La casa degli sp...

isabel allendeIsabel Allende Llona (Lima, 2 agosto 1942) è una delle autrici latinoamericane di maggior successo al mondo, con libri come La casa degli spiriti o La città delle bestie. Ha scritto romanzi basati sulle sue esperienze di vita, ma ha anche parlato delle vite di altre donne, unendo insieme mito e realismo. Ha partecipato a molti tour mondiali per promuovere i suoi libri ed ha anche insegnato letteratura in vari college statunitensi. Attualmente vive in California con suo marito, avendo ottenuto la cittadinanza americana nel 2003.

Biografia.
A tre anni dalla sua nascita, in Perù, nel 1945 il padre, Tomas Allende, divorzia e abbandona la famiglia; la madre decide di tornare in Cile con i tre figli e andare a vivere nella casa del nonno a Santiago. Grazie all'aiuto del cugino del padre Salvador Allende, futuro presidente del Cile, poi morto nel colpo di Stato del 1973, a Isabel e ai suoi fratelli non mancherà la possibilità di studiare e di vivere senza problemi economici. La casa del nonno sarà poi evocata nel primo romanzo, La casa degli spiriti, che nel 1982 le darà la notorietà e che trae spunto dalle vicende della famiglia Allende.

Nel 1956 la madre si risposa con un diplomatico e a causa del suo lavoro la famiglia farà dei soggiorni all'estero, prima in Bolivia, poi in Europa e in Libano, soggiorni che le permetteranno di conoscere un mondo diverso da quello da lei fino ad allora conosciuto nella casa del nonno. Tornata in Cile, nel 1962 si sposa con Michael Frías, da cui avrà due figli, Paula e Nicolás. Da questo momento si dedicherà al giornalismo, mestiere che sarà da lei sempre molto apprezzato. Dopo il colpo di stato di Pinochet dell'11 settembre 1973, lascia il Cile nel 1975 trasferendosi a Caracas, in Venezuela, dove rimane fino al 1988.
A quell'anno risalgono il divorzio da Frías ed il successivo matrimonio con William Gordon, con conseguente trasferimento in California, dove risiede tuttora, a San Rafael. Ne Il mio paese inventato Isabel rivela che Il piano infinito parla della vita di suo marito William. Nel 1991 improvvisamente la figlia Paula, a ventotto anni, si ammala di una malattia rara e gravissima, la porfiria, che la trascina in un lungo coma. La madre Isabel non abbandona la figlia per tutto il tempo e rimane al suo capezzale; durante tutto questo tempo comincia a scrivere, raccontando i ricordi della loro vita insieme in una commovente autobiografia.

Un anno dopo la scomparsa della figlia, avvenuta nel 1992, la Allende pubblica gli scritti nel libro Paula (1995). Tre anni dopo, nel 1997, raccoglie alcune delle lettere di solidarietà e affetto ricevute da tutto il mondo nel libro Per Paula. Come molte altre personalità, nel 2000 ha partecipato alla vasta campagna di sensibilizzazione mondiale "Respect" promossa dall'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite: sulle note dell'omonima canzone di Aretha Franklin, diversi personaggi noti (fra cui, oltre alla stessa Allende, anche il segretario di stato Madeleine Albright e il premio Nobel Rigoberta Menchú Tum) hanno cantato e ballato. La campagna ha celebrato allo stesso tempo i primi cinquant'anni di attività dell'agenzia e i 50 milioni di rifugiati che sono riusciti a ricostruirsi una vita nella nuova terra d'adozione.

In tempi più recenti Allende si è dedicata alla stesura di una trilogia per ragazzi dedicata ai nipoti: i primi volumi sono stati La città delle bestie e Il regno del drago d'oro poi ha seguito l'ultimo volume La foresta dei pigmei. Il 10 febbraio 2006 ha partecipato alla Cerimonia di apertura dei XX Giochi olimpici invernali di Torino 2006 portando, insieme ad altre sette donne famose, la bandiera olimpica. Nel maggio 2007 è stata insignita a Trento della laurea honoris causa in lingue e letterature moderne euroamericane.

È cugina della deputata cilena Isabel Allende Bussi. Nel 2009 pubblica L'isola sotto il mare. L'ultimo suo libro è intitolato Il quaderno di Maya ed è uscito nelle librerie nel 2011. Nel settembre 2010 è stata insignita con il Premio Nazionale Cileno per la Letteratura.

Opere
    1983 – La casa degli spiriti (La casa de los espíritus), Feltrinelli
    1984 – D'amore e ombra (De amor y de sombra), Feltrinelli
    1987 – Eva Luna, Feltrinelli

    1992 – Il piano infinito (El plan infinto), Feltrinelli
    1995 – Paula, Feltrinelli
    1998 – Afrodita, Feltrinelli
    1999 – La figlia della fortuna (Hija de la fortuna), Feltrinelli
    2001 – Ritratto in seppia (Retrato en sepia), Feltrinelli
    2002 – La città delle bestie (La ciudad de las bestias), Feltrinelli
    2003 – Il mio paese inventato (Mi país inventado), Feltrinelli
    2003 – Il regno del drago d'oro (El reino del dragón de oro), Feltrinelli
    2004 – La foresta dei pigmei (El Bosque de los Pigmeos), Feltrinelli
    2005 – Zorro. L'inizio della leggenda (El zorro), Feltrinelli
    2006 – Inés dell'anima mia (Inés del alma mía), Feltrinelli
    2008 – La somma dei giorni (La suma de los días), Feltrinelli
    2009 – L'isola sotto il mare (La isla bajo el mar), Feltrinelli 


    2011 – Il quaderno di Maya (El cuaderno de Maya)

Il-quaderno-di-Maya-Allende recensioneMaya Vidal, l'adolescente protagonista del nuovo romanzo di Isabel Allende, caduta nel circuito dell'alcol e della droga, riesce a riemergere dai bassifondi di Las Vegas e, in fuga da spacciatori e agenti dell'Fbi, approda nell'incontaminato arcipelago di Chiloé

In queste isole remote nel Sud del Cile, nell'atmosfera di una vita semplice fatta di magnifici tramonti, solidi valori e rispetto reciproco, Maya impara a conoscersi e a conoscere la sua terra d'origine, scopre verità nascoste e, infine, l'amore. 

A queste pagine si alterna il crudo racconto della sua difficile storia precedente, una vita fatta di marginalità e degrado, solitudine e cattive compagnie, nella quale precipita dopo la morte dell'amatissimo nonno. Isabel Allende torna a raccontare la vita di una donna coraggiosa in un romanzo che affronta con delicatezza le relazioni umane: le amicizie incondizionate, le storie d'amore palpabili come quelle più invisibili, gli amori adolescenziali e quelli lunghi una vita. Un ritmo incalzante, una prosa disincantata

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