Peter ha quattordici anni ed è solo. Da sempre. Dopo estreme ed indicibili esperienze trova accoglienza in una scuola sperimentale di Copena...

Peter ha quattordici anni ed è solo. Da sempre. Dopo estreme ed indicibili esperienze trova accoglienza in una scuola sperimentale di Copenaghen.

La scuola in oggetto è un istituto specializzato nel recupero di adolescenti disadattati.

Qui Peter dovrebbe imparare a coltivare affetti, a capire la realtà,essere uomo,crescere formarsi. Sceglie però,vie alternative, al margine o fuori da ciò che le ferree regole dell'Istituto consentono. È la storia di ciò che ha vissuto, suo passato, condiviso con due amici anche loro ospiti dell'istituto,August e Katarina.

Lo stesso Peter la racconta alla famiglia a distanza di anni.

Dall'autore di "Il senso di Smilla per la neve" un romanzo quasi autobiografico. Una storia sui drammi dei ragazzi che gli adulti non possono o non vogliono capire.

Che cos'è il tempo?

Salivamo cinque piani verso la luce e ci distribuivamo in tredici file rivolti verso il dio che apre le porte del mat­tino. Poi c'era una pausa, quindi arrivava Biehl. Perché quella pausa?

A un'esplicita domanda sulle sue pause rivoltagli da I Una delle ragazze brave, Biehl sul momento era rimasto in jpilenzio. Poi lui, che non diceva mai "io" di se stesso, aveva detto, lentamente e con grande serietà, come stupito della domanda, e forse anche della propria risposta: «Quando parlo dovete ascoltare soprattutto le mie pause. Dicono più delle mie parole».

Questo valeva anche per l'intervallo fra il momento in nella sala scendeva il silenzio assoluto e quello in cui i entrava e saliva sul pulpito. Una pausa eloquente, per dirlo con parole sue.

Poi veniva intonato un canto mattutino seguito da una preghiera che Biehl recitava come un un padrenostro, pausa, un canto patriottico, pausa e fine; a quel punto lasciava la sala come era arrivato, rapido, quasi di corsa.

Quali erano i sentimenti in sala mentre ciò avveniva?

Un sentimento in particolare, dissi io, era di primo mattino o la gente era stanca, ma non potevamo finirla lì?,

Mi stava venendo il mal di testa, ed era tardi, la campanel­la aveva già suonato, indicai l'ora.

Non ancora, disse lei, voleva farmi notare un'altra cosa, cioè il rapporto con il dolore. Nel corso di un esperimento, quando sopravveniva un dolore, come ora il mal di testa, non bisogna va mai interrompere e abbandonarlo. Bisogna­va invece dirigere su di esso la giusta luce dell'attenzione.

Disse così. La luce dell'attenzione.

Così ci volgemmo verso la paura.

Biehl aveva scritto le sue memorie, Sulle orme di Grundtvig. Lì dentro c'erano i nomi di tutti gli insegnanti che avevano lavorato nella scuola, tutte le volte che ci si era trasferiti in locali migliori e più ampi, una lunga serie di successi e il modo in cui erano stati premiati.

Ma nemmeno una parola sul rapporto con gli alunni, e perciò nemmeno sulla paura. Non una parola, nemmeno nelle pause o fra le righe.

Da principio era incomprensibile. Perché era quella la co­sa importante.

Non il rispetto o l'ammirazione, ma la paura.

Poi fu chiaro che quella reticenza rientrava in un piano più vasto. E allora capii.

Durante il canto mattutino rimanevamo in assoluto si­lenzio, fu la prima cosa che provai a farle capire.

A un determinato momento, ogni giorno, venivamo trasferiti nella sala canto, duecentoquaranta persone con ventisei insegnanti e Biehl; poi le porte venivano chiuse, e sapevamo che da quel momento bisognava osservare per un quarto d'ora un silenzio di tomba.

Era un divieto assoluto, perciò creava nella sala una certa tensione.

Come se la regola, includendo tutto e non tollerando nulla, chiedesse di essere violata. Come se la tensione all'interno della sala fosse uno dei suoi scopi.

Anni di esperienza avevano dimostrato che era impos­sibile far rispettare totalmente il divieto. Ma le poche eccezioni verificatesi erano comunque servite a riaffermare e a consolidare la regola.

In quelle poche occasioni si era trattato di un sommesso mormorio fra gli alunni, un tossicchiare e un agitarsi con­tagioso che per un po' non si poteva arrestare. Una situa­zione critica, una delle cose più difficili per un uomo nella posizione di Biehl.

La resistenza passiva di un corpo mas­siccio composto di piccoli esseri umani.

In quelle occasioni era stato fantastico. Non provava a fare come se nulla fosse. Piegava la testa e assorbiva l'agitazione. Rimaneva così, in piedi, a testa bassa, mentre la tensione in fila aumentava finché la paura soffocava l'agitazione.

Neanche per un attimo aveva guardato direttamente alcuno, andava avanti e concludeva il canto mattutino ! al solito. Eppure sapevamo che lui sapeva chi aveva linciato. Che aveva localizzato la fonte e sapeva come farla.

Doveva venire un altro insegnante, ma non si era ancora o nessuno.

Invece, la porta della classe era rimasta aperta pausa nell'attesa fu così lunga da confermarci quel che sapevamo.

Poi arrivò Biehl, con passo rapido e deciso.

«Sedetetevi» disse. «Jes rimanga in piedi.» ha bisogno di un po' di tempo per scaldarsi. Non anche se da quando mi ero ammalato a me così sembrava, forse un paio di minuti.

Jes aveva disturbato i suoi compagni nel canto mattutino, aveva intralciato l'orario della classe che già era rigido, aveva abusato della fiducia che l'era stata offerta, e d'improvviso arrivò il colpo.

Velocissimo, eppure con tale forza che sollevò il corpo e lo scaraventò nel corridoio tra i banchi.

Al colpo seguì una breve battuta d'arre­sto in cui lo shock bloccò tutto.

Poi arrivarono due cose contemporaneamente. Il sollievo, perché ora tutto era sta­to sistemato, e qualcos'altro, qualcosa di più profondo, di più lungo, quel che si produce quando un adulto colpisce con forza un bambino, qualcosa di totalmente estraneo al dolore dovuto al colpo.

Tornando verso la lavagna Biehl si rimise a posto i ve­stiti. Come un uomo che è stato in bagno. O con una put­tana. E che ha finalmente dato compimento a qualcosa di difficile ma necessario.

Lei non mi capì, così continuammo.

«Accade spesso?» chiese.

Prima della malattia non c'era stato motivo di pensare a quanto spesso. Ma ora, con la necessità di fare sempre at­tenzione al tempo, risultò una cosa piuttosto rara, meno di una volta alla settimana per classe. Un dosaggio estre­mamente preciso.

«In che modo?»

Era presto per iniziarla alle verità recondite, ma lo feci ugualmente.

Esisteva una legge, era stata Karin Aero a ri­velarlo, che risaliva all'antichità.

Dovendo dorare una su­perficie non era opportuno coprirla d'oro al cento per cen­to, l'effetto migliore si otteneva coprendola per poco più del sessanta. Una variante della legge sulla sezione aurea.

Lo stesso valeva per il rapporto fra tempo e punizione. Delle violazioni accertate, solo poco più della metà provo­cava una punizione.

Una specie di sezione aurea della violenza.

Io venivo picchiato spesso?

A questo potevo rispondere negativamente per quanto riguardava la mia permanenza nella scuola, un periodo di due anni e due mesi. In tutto questo tempo, fino a poco prima, non ero stato picchiato nemmeno una volta né ero stato punito, e fino a quando mi ero ammalato non avevo avuto un solo rimprovero né una "R" per un ritardo.

«No» disse lei, «quando uno ha paura, anche non essere puniti è una specie di libertà.»

Non lo disse per cattiveria, le era scappato. Era quasi di­retto a se stessa. Ma rivelava come provasse nei miei con­fronti una naturale avversione. E siccome non avevo nulla da perdere aggiunsi che prima di Biehl, nel mio passato, specialmente a Himmelbjerghus e alla Scuola delle croste, ne avevo prese e date più degli altri. Forse qui alla scuola non sarebbe riuscita a trovare un maggior esperto di ceffo­ni. A meno che non fosse andata direttamente da Biehl.

Mi chiese che cosa avrebbe detto lui.

Era scoppiato un caso nella scuola un anno prima. Sembrava che un alunno, Jes Jessen, con il quale avevo diviso stanza e che più tardi fu espulso, avesse avuto un abbassamento dell'udito dopo che Biehl lo aveva punito, ma non fu mai provato che fra le due cose esistesse una reagione, ma in quel caso Biehl venne sottoposto a molte tensioni perché desse una spiegazione.

Lui aveva detto , per quanto possibile, veniva rispettato il divieto di infligere punizioni corporali in vigore nella scuola dell'obbligo danese, ma che secondo la sua esperienza nessuno subiva mai subito danni per uno schiaffo, l'aveva detto con tale gravita da tranquillizzare tutti. dal resto lui aveva una certa esperienza, picchiava regolarmente i bambini da quarant'anni. comunque non era sbagliato.

La cosa determinante era il colpo. Era quello che succedeva intorno, subito 'prima e subito dopo. Ma che non era visibile, non a occhio nudo. Perché durava un istante. Anche se poi durava a descrivere questo immediato e profondo effetto lei la parola "umiliazione", che io accettai.

In fondo avevo capito.

Le informazioni esterne, cioè raccolte fuori del laborato­rio, sono sempre state facilmente accessibili.

Nel mese di maggio del 1971, dopo quasi due anni alla Biehl, durante i quali non c'era stato nulla da ridire nei miei confronti, e dopo che era stato scritto sulla mia sche­da che avevo un comportamento buono e un'intelligenza nella media, d'improvviso ebbi difficoltà a presentarmi in orario al mattino.

Il sabato e la domenica, quando gli altri erano a casa e io rimanevo solo a scuola, dormivo di gior­no, o non dormivo affatto, e rimanevo sveglio la notte, e questo influiva sul resto della settimana.

Mi rivolsi al medico scolastico perché non sorgessero sospetti di pigrizia o di mancanza di volontà, ma si potes­se constatare che era una malattia contro cui non potevo fare nulla, nemmeno con due sveglie, una delle quali mol­to grande.

Era l'ufficiale sanitario di zona ad avere la supervisione della scuola. Ordinò che fossi svegliato ogni mattina da Flakkedam, e per un certo periodo mi presentai in orario, anche se molto stanco. A quel punto avevo intuito il gran­de piano, e cominciai a temere una catastrofe.
Perciò inviai la lettera. Era la prima lettera della mia vi­ta, non c'era mai stato nessuno a cui scrivere.

L'avevo vista in cortile, con Biehl. Al mattino Biehl stava sempre sotto la porta per salutare quelli che arrivavano in orario e identi­ficare quelli che arrivavano in ritardo. Dal momento in cui ci svegliavamo, ci tornava in mente che sarebbe stato lì. Cosicché, in un certo senso, era già presente fra il sogno e la veglia.

Non c'era nessun contatto con le altre classi, special­mente quelle superiori erano lontanissime, e lei era due classi sopra di me. A un certo punto era rimasta assente per sei mesi, e quando tornò ero convinto, nessuno sapeva perché.

L'avevo vista a quell'epoca, ma solo da lottano. Una mattina la vidi in cortile, era arrivata tardi e sembrava una stonatura, non era il tipo.

Un paio di giorni dopo, arrivò di nuovo in ritardo, cominciai a contare. In due settimane di scuola sono arrivato a sei. Allora seppi che qualcosa non andava.

La sesta volta Biehl l'aveva presa in disparte. L'aveva condotta vicino al muro lasciando passare gli altri.

Era curvo su di lei, molto concentrato. Questo mi permetteva di avvicinarmi in modo da vedere i loro volti. Lei era un po' piegata verso di lui, e lo guardava fisso. Ero li vicino da vederle gli occhi, era come se stesse dicendo qualcosa.

L'avevo individuata nelle foto-annuario della scuola, si chiamava Katarina.

Vigeva il divieto di rimanere dentro la scuola dopo la campanella, con la sola eccezione della biblioteca, accanto alla sala professori. Lì era concesso stare durante la pausa del pranzo, per studiare e migliorarsi.
Adesso era vuota, a parte Katarina e me.

Rimase a lungo seduta e provò a farsi forza per dire qualcosa.

«Lo faccio apposta» disse. «Arrivo tardi apposta.»

L'avevo capito da quando li avevo visti in cortile. Quando Biehl si avvicinava a qualcuno, quello provava ad arretrare, veniva spontaneo, era una regola. Lei si era sporta verso di lui e lo aveva guardato negli occhi, come per sfruttare al massimo quel momento.

Lesse un pezzo di carta. Somigliava a una lettera.

«"Oltre al sonno e alla concentrazione ci sono anche al­tre cose che non sono state dette a nessuno. Giornate inte­re che scompaiono, e brevi attimi che diventano un'eter­nità." Racconta» disse.

Ora, non che volessi negare qualcosa, ma chiunque avesse scritto quella lettera, dissi, correva certo un grosso rischio ammettendo di essere così malato. Che cosa pote­vamo fare per diminuire questo rischio? Poteva forse ave­re in cambio qualche informazione?

«Sto effettuando un esperimento» disse lei.

Disse proprio così. Effettuando un esperimento.

«Ma c'è la garanzia che, dopo, uno arriverà in tempo?» domandai.

Rispose di no.

Se avesse promesso qualcosa non le avrei creduto, e in quel caso non sarebbe stato possibile continuare. Ma ora aveva detto la verità, perciò tentai.

La prima cosa che provai a spiegarle fu il canto mattuti­no, per via di una legge che aveva rivelato Karin Aero.

Non era normale che Karin Aero parlassi

Era normale che mettesse in moto la gente con una canzone e poi girasse tra le file per vedere chi cantava bene e chi era stonato,
decidendo così chi avrebbe fatto parte del coro, chi sareb­be rimasto fuori e chi era al limite. Ma, nell'ascoltare, qualche volta parlava pure, e quello che diceva era spesso importantissimo.

Una legge, come quella della sezione aurea.

In un'occasione del genere aveva detto che l'inizio di un brano musicale, se si tratta di un brano intelligente e i preciso, fissa subito e immutabilmente il resto del suo | contenuto e del suo svolgimento.

Perciò cominciai da lì, ma all'inizio non fu possibile, "Sembrava impensabile che lei riuscisse a capire, perché , una ragazza, ma soprattutto perché lei era dentro, e sembrava sempre dato il tempo per scontato.

Non aveva l'orologio, non si poteva fare a meno di averlo. Ma non era questa la cosa più importante. La cosa più importante era che proprio non sentì suonare la campanella.

Perché ascoltava me. Perciò non aveva pronte le risposte.

Glii raccontai del canto mattutino e della paura. Mentre il tempo passava e aumentava il rischio di essere scoperti.





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Egli è infatti l'autore di una fortunata serie televisiva che ha riscosso un buon successo anche presso il pubblico italiano: Twilight ...

Egli è infatti l'autore di una fortunata serie televisiva che ha riscosso un buon successo anche presso il pubblico italiano: Twilight Zone, che la TV italiana ha presentato recente­mente col titolo Ai confini della realtà.

Matheson, autore di numerosi romanzi del brivido, dell'occulto, conosce profonda­mente la sua materia essendosi per tutta la vita appassionato allo studio della para­psicologia e al culto dell'ESP (percezione extra sensoria).

Richard Burton Matheson (Città Allendale, 20 febbraio 1926) è uno scrittore e sceneggiatore statunitense.

Biografia.

Passa la sua infanzia a Brooklyn, dove già ad otto anni scrive e pubblica alcune poesie sul giornale Brooklyn Eagle.

Nel 1943 si diploma alla Brooklyn Technical High School ed entra subito nell'esercito, dal quale viene congedato perché ferito in azione. Tornato civile studia giornalismo all'Università del Missouri, e già nel 1950 pubblica il suo primo racconto, Nato d'uomo e di donna (Born of Man and Woman), sul Magazine of Fantasy and Science Fiction.

Nel 1951 si trasferisce in California, e l'anno successivo si sposa. L'incontro con la donna che diverrà sua moglie viene descritto nel racconto Fiamma frigida, esteso poi nel romanzo Cieco come la morte (Someone Is Bleeding, 1953).

In California entra a far parte dei "Fictioneers", un gruppo di giovani scrittori di gialli. Scrive così alcuni racconti gialli come Notte di furia (Fury on Sunday, 1954) e Cavalca l'incubo (Ride the Nightmare, 1962).

Mentre lavora in fabbrica, sogna di diventare scrittore a tempo pieno. Intanto riprende un'idea avuta a 17 anni vedendo il film Dracula, la sviluppa e ne trae Io sono leggenda (I am Legend, 1954). Lo stesso anno esce anche la prima antologia dei suoi racconti, Born of Man and Woman. Malgrado questo, le ristrettezze finanziarie spingono Matheson a trasferirsi per accettare il lavoro offertogli dal fratello.

Nel 1956 esce Tre millimetri al giorno (The Shrinking Man), scritto di notte dopo la giornata lavorativa, ed il successo è tale che la casa cinematografica Universal ne acquista subito i diritti e ne trae il film Radiazioni BX distruzione uomo, diretto da Jack Arnold. Il successo del film spinge la produzione a chiedere a Matheson un seguito: il copione che egli scrive, The Fantastic Shrinking Girl, non vedrà però mai la luce.

Nel 1957 la Hammer Films di Londra acquista i diritti di Io sono leggenda, ma l'adattamento che Matheson fa per il film non piace ai produttori, ed anche questo progetto rimane incompiuto.

Nel 1958 esce il romanzo Io sono Helen Driscoll (A Stir of Echoes), un altro successo.

Nel 1959 il produttore televisivo Rod Serling convoca Matheson per un progetto a cui sta lavorando: Ai confini della realtà (The Twilight Zone). Matheson si è già fatto un nome nell'ambito televisivo, scrivendo sceneggiature per telefilm come Alfred Hitchcock Presenta, Star Trek ed altri, così lo scrittore accetta di buon grado l'incarico, scrivendo per la nuova trasmissione.

Nel 1960 l'American International Pictures commissiona a Matheson l'adattamento cinematografico del racconto di Edgar Allan Poe The House of Usher. I vivi e i morti è il primo film di una serie che il regista Roger Corman realizza con la collaborazione di Matheson.

L'anno successivo scrive la sceneggiatura di Il padrone del mondo (Master of the World), adattandolo da Robur il conquistatore di Jules Verne, ed il successivo ancora La notte delle streghe (Burn Witch Burn) adattandolo da Ombre del male di Fritz Leiber.

La fama di Matheson come sceneggiatore è ormai tale che nel 1962 viene chiamato da Alfred Hitchcock per lavorare al suo film Gli uccelli (The Birds), tratto da un racconto di Daphne Du Maurier. Come Matheson stesso racconterà, Hitchcock non apprezza affatto la sua idea di non far vedere per niente gli uccelli nel film, tanto che la sceneggiatura alla fine viene affidata ad Evan Hunter.
Leggi anche: La casa d'inferno.
Nel 1964 Matheson adatta Io sono leggenda per il film L'ultimo uomo della Terra (The Last Man on Earth), una co-produzione italo-americana con Vincent Price protagonista. Ma il successo rimane nelle produzioni televisive: nel 1971 adatta il suo racconto Duel per la sceneggiatura dell'omonimo film, diretto dall'allora esordiente Steven Spielberg.

Intanto diviene più sporadica la sua attività di romanziere. Nel 1971 scrive La casa d'inferno (Hell House) e nel 1975 Appuntamento nel tempo (Bid Time Return), ma ormai il suo impegno più pressante è quello nelle sceneggiature televisive e cinematografiche. Intanto Boris Sagal dirige 1975 - occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man), libero adattamento da Io sono leggenda senza che però venga chiamato Matheson alla sceneggiatura.

Nel 1980 adatta per lo schermo Cronache marziane, l'antologia di Ray Bradbury, e nel 1983 scrive insieme a Carl Gottlieb la sceneggiatura per Lo squalo 3 (Jaws 3-D). Negli anni successivi continua la sua attività di sceneggiatore con film come Poliziotti a due zampe (Loose Cannons, 1990), ed episodi di telefilm come Oltre i limiti (The Outer Limits). Il film televisivo Trilogy of Terror II, del 1996, risulta essere l'ultima sua opera da sceneggiatore.

Bibliografia.

* Ricatto mortale (Someone Is Bleeding, 1953), Fanucci

* Notte di furia (Fury on Sunday, 1954)

* Io sono leggenda (I Am Legend, 1954), Fanucci (ISBN 8834709594)

o o I vampiri nell'edizione Longanesi del 1957

* Tre millimetri al giorno (The Shrinking Man, 1956), Fanucci (ISBN 8834710495)

* Io sono Helen Driscoll (A Stir of Echoes, 1958)

* I ragazzi della morte (The Beardless Warriors, 1960)

* Third Force (1960)

* Cavalca l'incubo (Ride the Nightmare, 1962)

* Comedy of Terrors (1967) - scritto con Elsie Lee

La casa d'inferno (Hell House, 1971)

* Appuntamento nel tempo (Bid Time Return (1975)

* Al di là dei sogni (What Dreams May Come, 1978), Mondadori (ISBN 8804460288)

* Earthbound (1982)

* Journal of the Gun Years (1992)

* The Gunfight (1993)

* Shadow on the Sun (1994)

* Seven Steps to Midnight (1995)

* The Memoirs of Wild Bill Hickok (1996)

* Now You See It... (1995)

* Passion Play (2000)

* Hunger And Thirst (2000)

* Camp Pleasant (2001)

* Abu and the 7 Marvels (2002)

* Hunted Past Reason (2002)

* Come Fygures, Come Shadowes (2003)

Antologie.

* Born of Man and Woman (1954)

* The Shores of Space (1957)

* Shock 1 (Shock!, 1961)

* Shock 2 (Shock 2, 1964)

* Shock 3 (Shock 3, 1966)

* Shock 4 (Shock Waves, 1970)

* Regola per sopravvivere (1977), Urania Classici n. 2

* By the Gun (1994)

* Incubo a seimila metri (2004), Fanucci (ISBN 8834709942)

* Duel e altri racconti (2005), Fanucci (ISBN 8834710630)

Antologie che contengono suoi racconti.

* Le meraviglie del possibile (1959)

racconti "Acciaio" (Steel, 1956) e "L'esame" (The Test, 1954)

* Horroriana (1979)

racconto "A caccia" (Prey, 1969)

* Le grandi storie della fantascienza 12 (1984)

racconto "Nato d'uomo e di donna" (Born of Man and Woman, 1950)

* Il colore del male (1987)

racconto "Nato d'uomo e di donna" (Born of Man and Woman, 1950)

* Un fantastico Natale (1988)

racconto "Il viaggiatore" (The Traveller, 1962)

* Popsy e altri racconti (1995)

racconti "Il caro estinto" (The Dear Departed, 1987) e "Talenti nascosti" (Buried Talents, 1987)


Filmografia (solo titoli usciti in Italia).


* Radiazioni BX: distruzione uomo (The Incredible Shrinking Man, 1957) - da Tre millimetri al giorno

* L'ultimo uomo della Terra (tit. orig. L'ultimo uomo della Terra, titolo inglese The Last Man on Earth, 1962) - da Io sono leggenda;

* Angeli nell'inferno (The Young Warriors, 1967) - da I ragazzi della morte

* L'uomo dalle due ombre (De la part des copains, 1970) - da Cavalca l'incubo

* Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, 1971) - da Io sono leggenda

* Dopo la vita (The Legend of Hell House, 1973) - da La casa d'inferno

* Ovunque nel tempo (Somewhere in Time, 1980) - da Appuntamento nel tempo

* Nient'altro che guai (Nothing But Trouble, 1991) - liberamente tratto da I figli di Noè

* Al di là dei sogni (What Dreams May Come, 1998)

* Echi mortali (Stir of Echoes, 1999) - da Io sono Helen Driscoll

* Io sono leggenda (I Am Legend, 2007) - da Io sono leggenda.

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Profondo Blu, nonostante manchi Ryme uno dei migliori libri di Deaver ambientato nel mondo di Internet. Immagina di essere in un bar. Un u...

Profondo Blu, nonostante manchi Ryme uno dei migliori libri di Deaver ambientato nel mondo di Internet.

Immagina di essere in un bar. Un uomo si avvicina. Il suo aspetto non ti e' familiare, eppure Lui sa tutto di te: conosce il tuo passato, il lavo­ro che fai, i tuoi hobby e il nome del tuo ex. Accetti un drink.

Questo e' il tuo primo - e ultimo -errore. Sei l'ultima vittima del­l'ultimo killer. Un uomo in grado di infrangere il guscio sottile che pro­tegge i segreti della tua vita, prima di porvi fine.

Quest'uomo si fa chiamare Phate e il suo pas­satempo preferito è l'omicidio. Nessuno è al sicuro da lui: Phate è un hacker eccezionale e, grazie a un programma da lui stesso elabo­rato, può penetrare in qualsiasi sistema infor­matico, violare ogni computer, spiare la posta elettronica, impadronirsi di dati personali.

Trama.
Può selezionare con cura le proprie vittime, ingannarle e attirarle in una trappola morta­le, assumendo ogni volta una nuova identità. Il suo terreno di caccia è Silicon Valley, in California, il centro mondiale dell'industria dei computer. E, per rendere la partita più interessante, Phate commette ogni delitto nell'anniversario di un evento cruciale nella storia dell'informatica, sfidando gli investiga­tori a prevedere quando colpirà la prossima volta.

Phate è il nome in codice del nuovo incubo della Silicon Valley: un hacker eccezionale che grazie a un programma di sua creazione, Trapdoor, può entrare nei computer e nella vita di tutti, estrapolando informazioni che vengono utilizzate per uccidere, perché Phate è un sadico omicida, che colpisce senza apparente motivo ogni genere di persona. L'Unità crimini informatici della polizia della California è impotente di fronte alle incursioni dell'hacker, e decide quindi di chiedere l'aiuto dell'assoluta autorità in materia di computer, Wyatt Gillette.

Il problema è che Gillette è un detenuto della prigione di San Jose, incarcerato per innumerevoli violazioni di banche dati e sistemi informatici, non ultimo il teoricamente invalicabile algoritmo che custodisce i segreti del Dipartimento della Difesa. Il capo dell'unità crimini informatici, Thomas Anderson, garantisce per la liberazione del prezioso prigioniero, nonostante sia sconsigliato dal detective Frank Bishop, incaricato delle indagini.

Finalmente connesso a un computer in rete, Gillette comincia la caccia al suo avversario nel Blu profondo, lo spazio virtuale dove regnano gli hacker.

Il furgone bianco e malconcio l'aveva messa a disagio.

Lara Gibson sedeva al bancone del Vesta's Grill sul De Anza a Cupertino, in California, e stringeva lo stelo freddo del suo bic­chiere di Martini cercando di ignorare due giovani programmatori in piedi poco lontano da lei che le lanciavano occhiate inequivoca­bili.

Guardò di nuovo fuori, attraverso la pioggerella che stava ca­dendo, e non vide traccia dell'Econoline senza finestrini che, ne era convinta, l'aveva seguita dalla sua abitazione, a qualche chilo­metro di distanza da lì, fino al ristorante. Lara scese dallo sgabello, si avvicinò alla vetrina e scrutò fuori.

Il furgone non era nel par­cheggio del ristorante. E non era nemmeno dall'altra parte della strada, nel parcheggio della Apple Computer, né in quello accan­to, che apparteneva alla Sun Microsystems. Entrambi quei punti sarebbero stati la scelta ideale per chiunque avesse voluto tenerla d'occhio, sempre che il conducente la stesse davvero seguendo.

No, il furgone era solo una coincidenza, decise Lara, una coin­cidenza messa in risalto da una punta di paranoia.

Tornò al bar e lanciò un'occhiata ai due giovani che alternavano sorrisetti d'intesa a un finto disinteresse.

Quasi tutti i ragazzi che si trovavano lì per l'happy hour indos­savano pantaloni casual, camicie senza cravatta e l'onnipresente marchio della Silicon Valley: distintivi delle varie aziende appesi a una sottile cordicella attorno al collo. I suoi due ammiratori sfog­giavano targhette blu della Sun Microsystems. Le altre squadre rappresentate dagli avventori del locale erano la Compaq, la Hewlett Packard e la Apple, per non parlare delle nuove arrivate, piccole compagnie che si occupavano di Internet, che venivano guardate ^on senza un certo disprezzo dai venerabili storici della Valley.

Lara Gibson, trentatlue anni, doveva avere circa cinque anni di più dei suoi due spasimanti. E, dal momento che era una donna d'affari che lavorava in proprio, e non era una geek - legata a una ditta di computer -, era probabilmente cinque volte più povera di loro. Tutto questo però non sembrava importare ai due giovanotti che erano stati conquistati dal suo volto esotico e intenso, incorni­ciato da una cascata di capelli corvini, dagli stivaletti alla caviglia, gonna rossa e arancione da gitana e dalla maglietta nera aderente che metteva in mostra bicipiti muscolosi.
Lara stimò che nel giro di due minuti uno dei ragazzi le si sa­rebbe avvicinato, e scoprì che la sua previsione era sbagliata solo di una decina di secondi.

Il giovane le si rivolse con una variante di una battuta che lei aveva già sentito almeno dieci volte: Scusami non voglio interrom­perti ma ehi romperei volentieri un ginocchio al tuo fidanzato non si fa aspettare una bella ragazza come te seduta al bancone di un bar e visto che d siamo posso offrirti un drink mentre decidi quale ginoc­chio vuoi che gli rompa?

Un'altra donna si sarebbe infuriata, avrebbe balbettato qualco­sa, sarebbe arrossita e si sarebbe sentita a disagio o magari avreb­be accettato le avance e gli avrebbe permesso di offrirle un drink che non voleva perché non era in grado di affrontare la situazione. Ma donne del genere erano molto più deboli di lei. Lara Gibson era "la regina della sicurezza metropolitana", come l'aveva defini­ta il Chronicle di San Francisco. Fissò l'uomo negli occhi, gli rivol­se un sorriso freddo e distaccato e replicò: "In questo momento non mi interessa la compagnia".

Tutto qui. Fine della conversazione.

Lui battè le palpebre, stupito da quella franchezza, abbassò lo sguardo e tornò dal suo amico.

Potere... era solo questione di potere.

Lara sorseggiò il suo drink.

Quel dannato furgone bianco l'aveva portata a ripensare a tutte le regole che lei stessa aveva inventato per insegnare alle donne a proteggersi nella società contemporanea. Diverse volte mentre si dirigeva al ristorante aveva controllato lo specchietto retrovisore e aveva visto il furgone a una decina di metri di distanza. Alla guida c'era un ragazzine. Era un bianco ma aveva i capelli annodati in una massa castana di treccine da rasta. Indossava una giacca mimetica e, nonostante il ciclo coperto e piovoso, portava un paio di oc­chiali da sole.

Quella era la Silicon Valley, ovviamente, rifugio per spostati e hacker, e non era insolito fermarsi allo Starbucks a pren­dere un caffè ed essere serviti da un ragazzo gentile con una decina di piercing, la testa rasata e abiti da gangster di periferia. Eppure, il conducente del furgone sembrava fissarla con una strana ostilità.

Lara si ritrovò a giocherellare distrattamente con il flacone di Mace che teneva nella borsetta.

Un'altra occhiata fuori dalla vetrina. Solo auto costose compra­te con soldi guadagnati grazie alla Rete.

Uno sguardo al locale. Solo geek inoffensivi.

Rilassati, si disse, e bevve un altro sorso del suo Martini.

Lanciò uno sguardo all'orologio appeso alla parete. Un quarto al­le sette. Sandy era in ritardo di quindici minuti. Non era da lei. Lara prese il cellulare e lesse sul display: "Nessuna rete disponibile".

Stava per dirigersi al telefono a pagamento quando un giovane uomo entrò nel bar e le fece un cenno con la mano. Sapeva di aver­lo già visto da qualche parte, ma non riusciva a ricordarsi dove. I suoi capelli lunghi, biondi e ordinati e il suo pizzetto le erano ri­masti impressi. Indossava jeans bianchi e una camicia blu stropic­ciata. L'unica concessione al fatto di far parte dell'industria ameri­cana era la cravatta; ma, dal momento che era un uomo d'affari della Silicon Valley, la cravatta non era a righe o a fiori anni Set­tanta, ma decorata con un'immagine di Titti.

"Ehi, Lara." Le si avvicinò e le strinse la mano, appoggiandosi al bancone. "Ti ricordi di me? Sono Will Randolph, il cugino di Sandy. Cheryl e io ti abbiamo conosciuta a Nantucket, al matrimo­nio di Fred e Mary."

Giusto, ecco dove l'aveva incontrato. Lui e sua moglie, che aspettava un bambino, si erano seduti al tavolo con lei e Hank, il suo ragazzo.

"Certo. Come va?"

"Bene. Indaffarato. Ma chi non lo è da queste parti?"

La sua targhetta diceva Xerox Corporation PARC. Lara rimase colpita. Persino i non addetti ai lavori sapevano del leggendario Centro di Ricerche di Palo Alto della Xerox, a otto o nove chilo­metri da lì.
Will si rivolse al barista e ordinò una birra leggera. "Come sta Hank?" domandò poi. "Sandy mi ha detto che stava cercando di trovare lavoro alla Wells Fargo."

"Oh, sì, è andata tene. Adesso sta seguendo il programma orientativo a Los Angeles."

La birra arrivò e Will ne bevve un sorso. "Congratulazioni."

Un lampo bianco nel parcheggio.

Lara si voltò di scatto allarmata, ma quasi subito si accorse che il veicolo era una Ford Explorer bianca su cui viaggiava una giova­ne coppia.

Guardò oltre la Ford, scrutando di nuovo la strada e i parcheg­gi, e si ricordò che dalla sua macchina aveva lanciato un'occhiata alla fiancata del furgone mentre la sorpassava. Aveva notato una macchia nera scura e rossastra sulla fiancata, probabilmente fan­go, ma a Lara era sembrato sangue.

"Tutto bene? "chiese Will.

"Certo. Scusami." Si girò a guardarlo, felice di avere un alleato. Un'altra delle sue regole per la sicurezza metropolitana: "Due per­sone sono sempre meglio di una". Mentalmente, Lara aggiunse: Anche se una delle due è un geek pelle e ossa che non arriva al me­tro e settantacinque.

Will continuò: "Sandy mi ha chiamato mentre tornavo a casa e mi ha chiesto di passare qui a riferirti un messaggio. Ha provato a chiamarti ma non è riuscita a prendere la linea. Siccome è in ritar­do, dice se potete incontrarvi nel ristorante vicino al suo ufficio, al Ciro's, dove siete state il mese scorso. A Mountain View. Ha pre­notato un tavolo per le otto".

"Non era necessario che venissi di persona. Avrebbe potuto te­lefonare ^ barista."

"Voleva che ti portassi le foto del matrimonio. Potete guardarle stasera insieme e dirmi se ne volete delle copie."
Leggi anche: La dodicesima carta è il sesto libro di Jeffery Deaver dedicato al criminologo tetraplegico Lincoln Rhyme.
Will notò un suo amico dall'altra parte del bar e lo salutò con un cenno: la Silicon Valley era grande centinaia di chilometri qua­drati ma non era molto diversa da una piccola città. Poi aggiunse: "Cheryl e io volevamo portare le foto, questo weekend, da Sandy a Santa Barbara..."

"Già, ci andremo venerdì."

Will fece una pausa e sorrise come se stesse per condividere con lei un grande segreto. Estrasse il portafogli e lo aprì per mostrarle una foto che ritraeva lui, sua moglie e una neonata minuscola e paffuta. "È nata la scorsa settimana", rivelò orgoglioso. "Si chiama Claire."

"Oh, è adorabile", sussurrò Lara. Per un attimo si chiese come mai proprio al matrimonio di Mary, Hank le avesse detto che non era affatto sicuro di volere dei figli, dopotutto.

Be', meglio non pensarci...

"Quindi dovremo rimanere a casa per un po'.

"Come sta Cheryl?"

"Benissimo. Anche la bambina. È una sensazione indescrivi­bile...

Credimi, essere genitore ti cambia completamente la vi­ta."

"Immagino."

Lara guardò di nuovo l'orologio: le sette e trenta. In auto avreb­be impiegato almeno mezz'ora, per arrivare da Ciro's. "È meglio che vada, adesso."

Poi, attraversata da una fitta di angoscia, ripensò al furgone e al suo conducente.

Alle treccine.

Alla macchia rugginosa sulla portiera malconcia.

Will chiese il conto e pagò.

"Non è necessario", disse Lara. "Faccio io."

Lui scoppiò a ridere. "Ci hai già pensato."

"Cosa?"

"Ti ricordi di quelle azioni di cui mi hai parlato al matrimo­nio?"
Lara si ricordò di essersi vantata a lungo delle quote di un'indu­stria biotecnologica che aveva acquistato e che l'anno precedente le avevano fruttato un guadagno del sessanta per cento.

"Sono tornato a casa da Nantucket e ne ho comprate un bel po'; quindi... grazie." Sollevò la birra verso di lei come per fare un brindisi. Poi si alzò. "Sei pronta?"

"Puoi scommetterci." Lara fissò la porta con crescente disagio mentre si avvicinavano all'uscita.

Era solo paranoia, si disse. Per un attimo, come le capitava di tanto in tanto, pensò che avrebbe dovuto trovarsi un vero lavoro, come tutte le persone che stavano al bar. Non avrebbe dovuto pas­sare così tanto tempo in un mondo violento.

Certo, solo paranoia...

Ma allora perché il ragazzo con le treccine si era allontanato tanto in fretta quando lei aveva svoltato nel parcheggio e lo aveva guardato?

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Joel, undici anni, vive con il padre, che fa il taglialegna ma è un ex marinaio ancora innamorato dell'oceano . La mamma è andata via di...

Joel, undici anni, vive con il padre, che fa il taglialegna ma è un ex marinaio ancora innamorato dell'oceano. La mamma è andata via di casa tanti anni prima.

Joel è solitario, inquieto, ribelle: vorrebbe sapere perché sua madre è sparita, è irritato col padre che ha un nuovo legame, cerca l'approvazione di un compagno ben sapendo che è solo un prepotente, e per compiacerlo affronta una prova pericolosa: arrampicarsi su un ponte altissimo...

Fuori dalla finestra, in una notte di gelo, Joel ha visto un cane che ha l'aria di correre incontro a una stella. Abbiamo tutti bisogno di stelle, vero?

E Joel troverà le sue, piano piano, con pazienza, crescendo.

Henning Mankell (Stoccolma, 1948) è l’autore dei gialli del commissario Wallander, tradotti in tutto il mondo. Tra i suoi libri per ragazzi, Il segreto del fuoco, Il cane che inseguiva le stelle, Il ragazzo che dormiva con la neve nel letto e Il figlio del vento.

Leggi anche: Assassino senza volto, una splendida combinazione tra il meglio del noir americano e il fascino scandinavo.
Trama.

Il cane. Tutto cominciò con lui.

Se non avesse visto il cane solitario forse non sa­rebbe successo niente. Niente di tutto ciò che in se­guito divenne tanto importante da cambiare ogni cosa. Niente di tutto ciò che all'inizio era emozio­nante e poi spaventoso.

Tutto cominciò con il cane. Il cane solitario che aveva visto quella notte d'inverno in cui si era sve­gliato di soprassalto, si era alzato dal letto e in punta di piedi era andato a sedersi sul davanzale della finestra.

Non sapeva perché si fosse svegliato nel mezzo della notte.

Forse aveva sognato qualcosa.

Un incubo, forse, dimenticato al risveglio. O for­se suo padre aveva russato nella stanza accanto al­la sua camera da letto. Non accadeva spesso, ma a volte lo si poteva sentire russare una volta sola, lanciando una specie di ruggito: poi scendeva di nuovo il silenzio.

Come un leone che ruggisce nella notte inver­nale.

Era stato mentre era seduto sul davanzale della finestra che aveva visto il cane solitario.

La finestra era ricoperta di cristalli di ghiaccio, e lui aveva dovuto soffiare sul vetro per poter vede­re fuori. Guardando il termometro aveva scoperto che c'erano quasi trenta gradi sotto zero. Ed era stato in quel momento, mentre era seduto a guar­dare fuori, che all'improvviso aveva visto il cane. Correva sulla strada tutto solo.
Si era fermato a guardarsi intorno proprio sotto il lampione, annusando in diverse direzioni prima di riprendere a correre. Poi era scomparso.

Era un normalissimo pastore norvegese grigio. Quella era l'unica cosa che aveva avuto il tempo di vedere. Ma perché stava correndo là fuori, solo in quella fredda notte invernale? Dove stava andan­do? E perché si era guardato intorno?

Sembrava quasi che avesse paura di qualcosa.

Anche se aveva incominciato a sentire freddo era rimasto seduto sul davanzale della finestra ad aspettare che il cane tornasse. Ma non era acca­duto.

Fuori c'era solo la fredda e vuota notte inverna­le. Le stelle brillavano lontane.

Non riusciva a dimenticare il cane solitario.

Durante quell'inverno si svegliò spesso senza sapere il perché. Ma ogni volta si alzava, cammi­nava in punta di piedi sul freddo linoleum del pa­vimento e si sedeva sul davanzale della finestra ad aspettare che il cane tornasse.

Una volta si addormentò davanti alla finestra. Era ancora lì quando suo padre alle cinque si alzò a preparare il caffè.

«Cosa ci fai qui?» gli chiese suo padre dopo averlo svegliato scuotendolo.

Suo padre si chiamava Samuel e faceva il taglia­legna. Alla mattina presto andava nel bosco a la­vorare. Abbatteva gli alberi per una grande indu­stria forestale che aveva uno strano nome: Marma Tubolungo.

Quando suo padre lo trovò addormentato da­vanti alla finestra, non sapeva proprio che cosa ri­spondere. Non poteva certo dire che era seduto lì ad aspettare un cane. Forse avrebbe creduto che stesse mentendo, e a suo padre non piaceva la gen­te che non diceva la verità.

«Non lo so» rispose. «Forse ho di nuovo cam­minato nel sonno.»

Questo lo poteva dire. Non era del tutto vero, ma nemmeno completamente falso.
Aveva camminato nel sonno quando era picco­lo. Non se lo ricordava, però: era stato suo padre a raccontargli che, più di una volta, l'aveva visto en­trare in camicia da notte nel soggiorno in cui lui

stava ascoltando la radio o sfogliando una delle sue vecchie carte nautiche. E quando suo padre lo svegliava lui proprio non sapeva spiegare perché era in piedi e camminava pur continuando a dor­mire.

Era passato molto tempo da allora. Cinque anni: quasi la metà della sua vita. Ormai ne aveva undi­ci compiuti.

«Vai a letto, adesso» gli disse suo padre. «Non devi restare seduto qui al freddo.»
Si infilò di nuovo sotto le coperte e ascoltò suo padre preparare il caffè e i panini che si sarebbe portato nel bosco, per poi chiudersi la porta d'in­gresso alle spalle.

Dopo scese il silenzio.

Guardò la sveglia accanto al suo letto, appog­giata su uno sgabello che gli era stato regalato quando aveva compiuto sette anni.

Non gli piaceva, quello sgabello. Gli era stato regalato al posto dell'aquilone che aveva chiesto.

Ogni volta che guardava lo sgabello si arrab­biava.

Come si fa a regalare uno sgabello a chi deside­ra un aquilone?

Poteva dormire ancora due ore prima di dover­si alzare per andare a scuola. Si tirò la coperta fino al mento, si rannicchiò e chiuse gli occhi, e subito vide arrivare di corsa il cane solitario. Correva su zampe silenziose nella notte invernale, e forse era diretto a una stella lontana.

In quel momento sapeva che lo avrebbe cattura­to. Lo avrebbe attirato nel suo sogno. Lì si sarebbe­ro tenuti compagnia, dove non faceva freddo come nella notte invernale...

Poco dopo il figlio del taglialegna dormiva. Si chiamava Joel Gustafson.

Fu nell'inverno del 1956 che vide per la prima volta il cane solitario.

E fu in quell'inverno che accadde tutto.

Tutto ciò che era cominciato con il cane...
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Una fredda giornata di gennaio poco prima dell'alba, in un paese del sud della Svezia, un contadino scopre che i suoi vicini sono stati ...

Una fredda giornata di gennaio poco prima dell'alba, in un paese del sud della Svezia, un contadino scopre che i suoi vicini sono stati assaliti e picchiati barbaramente.

Incredulo di fronte a tanto sangue, avverte la polizia.

Quello che vede il commissario Wallander è peggio di quanto avesse immaginato. Molto peggio. L'uomo è stato torturato a morte, la donna è ancora viva, legata a una sedia, anche lei vittima di una violenza senza ragione. Prima di morire, sussurra le ultime parole: «Straniero, straniero».

E in Svezia queste sono parole che possono scatenare la rabbia di molti, far esplodere l'odio razziale che cova in una società minata da una profonda inquietudine.

Basta una fuga di notizie e comincia la caccia all'uomo. I cittadini non si fidano più della polizia, preferiscono organizzare da sé la loro sicurezza e la loro vendetta: Kurt Wallander, con i suoi colleghi, deve arginare la loro determinazione a farsi giustizia da soli.

Ma scoprirà presto che il povero vecchio barbaramente trucidato conduceva in realtà una doppia vita...


Ha dimenticato qualcosa. Appena si sveglia lo sa con sicurezza. Qualcosa che ha sognato durante la notte. Qualcosa che dovrebbe ricordare.

Si sforza di ricordare. Ma il sonno è come un buco ero. Un pozzo che non rivela niente di ciò che contiene. Eppure non ho sognato i tori, pensa. Se fosse stato cosí sarei fradicio di sudore, come se mi fossi svegliato cpn la febbre nel pieno della notte. E questa notte, i tori mi hanno lasciato in pace.

Rimane e disteso al buio e ascolta. Il respiro di sua moglie è appena percettibile e deve sforzarsi per captar­li il suono.

Una mattina o l'altra sarà lì, distesa di fianco a me, e senza che io me ne sia accorto, pensa. Oppure io . Uno di noi morirà prima dell'altro.

La sveglia sul comodino di fianco al letto con i numeri fosforescenti indica le cinque meno un quarto.

Mi sono svegliato a quest'ora, pensa. Di solito mi sveglio alle cinque e mezza. È sempre stato così da anni.

Perché mi sono svegliato adesso?


C'è qualcosa di diverso. Qualcosa che non è come dovrebbe.

Sposta una mano con cautela fino a toccare il volto di sua moglie. Appoggia appena i polpastrelli e sente il calore del viso. Questo vuole dire che non è morta.

Questo vuole dire che non è ancora stato lasciato solo.


Continua a cercare di ascoltare nel buio.

La cavalla, pensa. Non nitrisce. Ecco perché mi sono svegliato. D'abitudine, lo fa ogni notte. La sento senza svegliarmi e nel mio subconscio so che posso continuare
dormire.

Si alza lentamente cercando di evitare che il letto ci­goli. Lo stesso letto nel quale hanno dormito per quarant'anni. L'unico mobile che avevano potuto permettersi quando si erano sposati. L'unico letto che avrebbe avuto in tutta la loro vita.

Mentre attraversa il pavimento di legno per arrivare alla finestra, sente la solita fitta di dolore mattutino al ginocchio sinistro.


Sono vecchio, pensa. Vecchio e consumato. Ogni mattina quando mi sveglio non riesco a fare a meno di pensare che ho già settant'anni.

Arrivato alla finestra, sposta la tenda e osserva la notte d'inverno. È l'8 gennaio e in Scania non è ancora caduta la prima neve.

La lampada al di sopra della porta della cucina illumina un triangolo del giardino, la quercia spoglia e l'inizio dei campi appena al di là.

Socchiude gli occhi e volge lo sguardo verso il giardino della famiglia Lòvgren. La loro casa bianca lunga è avvolta dal buio.


«Che cosa stai facendo?» farfuglia sua moglie. «Dormi» risponde. «È solo un crampo.» «Hai male?» «No.»

«Torna a dormire allora. Non rimanere lì al freddo.» Poi sente che la donna si gira su un fianco. Una tempo ci siamo amati, pensa. Ma subito si pente di quel suo pensiero. Troppo sentimentale. Amare.

Non è più per quelli come noi. Un uomo che ha fatto il contadino, chino a lavorare la dura terra della Scania, per più di quarant'anni, non lascia uscire la parola "amare" dalla bocca quando parla con sua moglie.

Nella nostra vita l'amore è sempre stato qualcosa di diverso...

Continua a osservare la casa dei vicini, socchiude gli occhi, cerca di penetrare con lo sguardo il buio della notte d'inverno.


Nitrisci, pensa. Nitrisci nel tuo box, così so che tutto come sempre. Così posso tornare sotto il piumone ancora un po'.

La giornata del contadino in pensione, di un uomo pieno di acciacchi, è già sufficientemente lunga e triste così come è.


Improvvisamente si rende conto che, per qualche istante, il suo sguardo è rimasto fisso sulla finestra dei vicini. Qualcosa è cambiato. Per anni aveva i gettato uno sguardo alle finestre dei vicini, per curiosità.

Ora c'è qualcosa che è cambiato. O forse è stato solo il buio.

Chiude gli occhi conta fino a venti per farli riposare. Poi li riapre e fissa lentamente la finestra e ora è sicuro che sia aperta. Una che di notte è sempre stata chiusa ora, improv
visamente è aperta.

E la giumenta non nitrisce...

La giumenta non ha nitrito perché il vecchio Lòvgren ha fatto la sua solita camminata notturna fino alla stalla, come ogni notte, la prostata lo ha buttato del letto caldo...


È solo la mia immaginazione, si dice. Uno scherzo dei miei occhi. Tutto è come sempre. Cosa può mai accade­re da queste parti? In questo minuscolo villaggio chia­mato Lenarp, poco a nord di Kadesjò, sulla strada che porta al magnifico lago di Krageholm, nel cuore della Scania?
Qui non succede mai niente. Il tempo si è fer­mato in questo piccolo villaggio dove la vita scorre come un ruscello senza energia né volontà. Qui rimangono solo alcuni contadini che hanno venduto o dato in affit­to le proprie terre ad altri. Qui viviamo anche noi aspet­tando l'inevitabile...

Alza nuovamente lo sguardo verso la finestra e pensa che né Maria, né Johannes Lòvgren l'avrebbero lasciata aperta. Fra le altre cose, la vecchiaia porta con sé anche la paura, le serrature aumentano continuamente, e nes­suno dimentica di chiudere le finestre al calare della notte. Invecchiare significa diventare apprensivi.

La stessa paura dell'ignoto che si prova da bambini torna sempre con la vecchiaia...

Potrei vestirmi e uscire, pensa. Non devo fare altro che attraversare il giardino, riparandomi dal vento in­vernale, e arrivare allo steccato che divide le nostre pro­prietà. Così sarò sicuro che la mia immaginazione mi sta giocando uno scherzo.

Ma decide di rimanere in casa. Fra breve Johannes si alzerà per preparare il caffè. Prima accenderà la luce nel bagno, poi quella della cucina. E tutto sarà come sem­pre...

Rimane alla finestra e improvvisamente si rende conto che sta rabbrividendo. Il freddo della vecchiaia che cor­re nelle ossa anche nella più calda delle stanze. Pensa a Maria e a Johannes. Anche con loro abbiamo avuto una ipecie di matrimonio, pensa, come vicini e come contadini.

Ci siamo aiutati a vicenda, abbiamo anche condiviso i momenti buoni della vita.

Abbiamo celebrato insieme le notti di
mezza estate e insieme abbiamo consumato i pranzi di Natale.

I nostri figli hanno scorrazzato sulle nostre terre come se fosse una sola proprietà.

E adesso viviamo in­sieme il lento tempo della vecchiaia.


Senza sapere perché, apre la finestra, cercando di non fare rumore per non svegliare Hanna.

Istintivamente tiene la mano stretta sulla maniglia, vuole evitare che le raffiche di vento possano fargli perdere la presa e farla sbattere. Ma fuori tutto è calmo e si ricorda che le pre­visioni meteo non avevano parlato di possibilità di tem­pesta sulla Scania.


II cielo è terso e stellato e fa molto freddo. Sta per chiudere la finestra quando ha l'impressione di avere udito un rumore.

Un uccello che chiama nella notte, poi viene preso dalla paura. L'ansia scaturisce come nulla e lo attanaglia.


Gli sembra di udire una persona gridare. È un grido, lanciato perché altri lo possano udire. Chiude la finestra con tale forza che una delle piante sbatte contro il vetro e sveglia Hanna.

Che stai facendo?» gli dice con tono irritato.


La cavalla non nitrisce» risponde avvicinandosi alla finestra. E qualcuno sta gridando.»

La donna si mette a sedere sul letto.

«Che cosa stai dicendo?»

Non vuole rispondere, ma adesso è sicuro che non è stato il richiamo di un uccello.

«Il grido era di Johannes o di Maria» dice. «Uno di loro due ha gridato per chiedere aiuto.»

La donna si alza dal letto e va alla finestra. Scruta il buio, la camicia da notte bianca la fa sembrare ancora più alta e robusta.

«La finestra della cucina non è aperta» sussurra. «È rotta.»

L'uomo le si avvicina rabbrividendo.

«Qualcuno sta gridando aiuto» dice la donna con vo­ce insicura.

«Cosa facciamo» chiede l'uomo.

«Vai lì. Adesso.»

«E se c'è pericolo?»

«Sono i nostri migliori amici. Se è successo qualcosa dobbiamo aiutarli.»

L'uomo si veste rapidamente, poi va in cucina e pren­de la torcia elettrica che è sulla cassetta dei fusibili. Camminando sente il fango indurito dal gelo sotto i piedi. Fatti alcuni passi si volta come per assicurarsi che' Hanna sia sempre alla finestra.

Arrivato allo steccato si ferma. Non sembra muoversi niente. Adesso vede chiaramente che la finestra è rotta. Scavalca il basso steccato e si avvicina alla casa bianca dei Lòvgren. Nessun grido. Solo il rumore attutito dei suoi passi.

È stato uno scherzo della mia immaginazione. Sono solo un vecchio rimbambito che non sa più distinguere fra illusione e realtà. Forse sognerò ancora i tori. Quel vecchio incubo che avevo da bambino quando sognavo di essere rincorso da tori e che mi faceva capire che un giorno sarei morto...

Poi sente nuovamente l'urlo. Più debole ora, più simi­le a un gemito questa volta. E sa che è Maria.

Si avvicina alla finestra della camera da letto e soc­chiude gli occhi cercando di vedere all'interno attraver­so la fessura fra le tende.

Improvvisamente è sicuro che Johannes è morto. Accende la torcia elettrica e chiude gli occhi prima di costringersi a guardare all'interno.

Vede Maria. È legata a una sedia capovolta sul pavimento. Il suo volto è ricoperto di sangue, i pezzi della sua dentiera sono sparsi sulla camicia da notte.

Poi vede uno dei piedi di Johannes. Riesce a vederne solo uno. Il resto del corpo è nascosto dalla tenda.

Si volta e torna indietro zoppicando. Scavalca nuovamente lo steccato e scivola sbattendo il ginocchio su una lastra di fango dura come una pietra. 8enza esitare telefona subito alla polizia.
«Non muoverti. Non voglio che tu veda quell'orribile spettacolo.»


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