Quali sono i metodi per scrivere un libro? Quali sono i trucchi e le piccole furbizie che possiamo mettere in pratica per arrivare in fo...


Quali sono i metodi per scrivere un libro? Quali sono i trucchi e le piccole furbizie che possiamo mettere in pratica per arrivare in fondo a quelle interminabili centinaia di migliaia di battute che abbiamo - sciaguratamente! - concordato o che ci siamo dati come limite? Come superare l’angoscia della pagina bianca, o dell’intreccio da sviluppare, o di una trama che non ci convince? E per l’ispirazione, come la mettiamo?

Carl Zimmer è un divulgatore scientifico piuttosto noto negli Usa. Ecco cosa suggerisce:

    1. Fate più ricerca possibile lontano da Internet - con gente reale, in luoghi reali.

    2. Preparatevi a dover schematizzare una grossa mole di dati. Usate un muro, o un software come Scrivener.

    3. Siate pronti ad amputare interi capitoli. Sarà doloroso.

Cory Doctorow, giornalista, scrittore, attivista digitale, mente di BoingBoing, è anche un autore affermato. Ecco il suo quintetto di consigli

    1. Scrivete tutti i giorni. Ogni cosa che fate ogni giorno diventa sempre più facile. Se siete sempre tremendamente impegnati, imponetevi una mole piccola di lavoro (100 parole? 250 parole?) ma scrivete ogni giorno.

    2. Scrivete anche quando non vi sentite dell’umore giusto. Non siete in grado di capire se state scrivendo qualcosa di buono o di pessimo mentre lo state scrivendo.

    3. Scrivete anche quando vi sembra che il libro faccia schifo e non stia andando da nessuna parte. Dovete solo continuare a scrivere. Non fa schifo. C’è un conflitto tra la vostra parte conscia, che va nel panico, dato che il vostro subconscio ha preso in mano la situazione: e sa cosa fare.

    4. Lasciate a metà una frase sulla quale ricominciare il giorno dopo - in questo modo potrete scrivere qualche parola senza essere particolarmente creativi, e prima che ve ne accorgiate, starete scrivendo di nuovo.

    5. Scrivete anche se c’è confusione intorno a voi. Non avete bisogno di sigarette, silenzio, musica, una sedia comoda, o un posto tranquillo. Avete solo bisogno di dieci minuti e di uno strumento di scrittura.

Ben Casnocha invece è uno scrittore con gli occhi bene aperti sull’imprenditoria e sul web. Ma i suoi tre veloci consigli sono molto utili a chi passa tempo anche sulla rete, oltre che su Word…

    1. Quelle merdose prime bozze. Ehi, l’ha scritto Anne Lamott*, non io! Ma con i libri, sembra più che siano “le prime venti merdose bozze”. Così merdose, così a lungo.
    2. Trovate una soluzione per non distrarvi con internet. Io uso un’applicazione che si chiama Self Control sul mio Mac.
    3. Fatevi un piano molto, molto, molto accurato per gestire le distrazioni che arriveranno da internet.

Peter Conners è uno scrittore e giornalista statunitense: ha scritto di controcultura, per esempio in Growing Up Dead: The Hallucinated Confessions of a Teenage Deadhead and White Hand Society, e in The Psychedelic Partnership of Timothy Leary & Allen Ginsberg.

    1. Quando sto scrivendo un libro leggo solo libri che mi siano utili alla narrazione. Se non mi servono - e non mi importa quanto mi piacerebbe leggerli - non li leggo. Credo che molti darebbero il consiglio opposto (fate una pausa e leggete qualcosa che non c’entra niente, ecc) ma non io. Questo è il vostro momento per essere totalmente ossessionati. Andate avanti: crogiolatevi nella follia.
    2. Non-fiction non dovrebbe equivalere a scritto in maniera povera. Scrivere è scrivere, è l’aspetto artistico conta sempre. Rendete piacevole da leggere il vostro libro, e sarà più probabile che riusciate a comunicare al lettore il vostro messaggio.
    3. Evitate di fissarvi sugli aspetti promozionali dei social media. Condividete semplicemente la vostra passione per la materia che state affrontando e filtrando durante il processo di scrittura. L’aspetto promozionale a quel punto sarà un’estensione organica della vostra passione.

John Schwartz è un giornalista, e ha scritto Walking Tall When You’re Not Tall at All ed è più sintetico. Racconta di quella volta che Nancy Cooper di Newsweek gli disse…

    1. Consiglio da una redattrice di Newsweek con la quale lavorai sul finire degli anni ottanta, Nancy Cooper. Aveva circa la mia età, ma era molto più intelligente, sveglia, mondana e sofisticata. Io ero preoccupato di dover scrivere il pezzo che apriva la sezione “Interni”. Mi mandò un biglietto con scritto: “Devi solo metterti a lavorare e lavorare finché hai finito. È tutto qui: niente misteri”.

Jonah Lehrer ha scritto How We Decide e Proust Was a Neuroscientist. Sintetico anche lui…

    1. Il mio consiglio è che insistiate col vostro editor affinché sia brutale - ci devono essere correzioni in penna rossa su ogni pagina. Nella mia esperienza, è in questa fase che un libro diventa decente (…) è un processo davvero fondamentale, e spesso molti editor ci vanno troppo leggeri (o sono troppo impegnati) e troppi autori sono riluttanti ad accettare le loro correzioni. Un buon editor è una gran cosa. 
 
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Un misterioso segnale elettronico, di origine sconosciuta, diramato attraverso i telefoni cellulari di tutto il mondo, pene...




Un misterioso segnale elettronico, di origine sconosciuta, diramato attraverso i telefoni cellulari di tutto il mondo, penetra nella mente degli utenti con l'effetto di devastare in un solo istante l'intero raziocinio e di ridurre larga parte della popolazione della Terra in condizioni animalesche, vittima di istinti primordiali. Alcuni sopravvissuti all'effetto dell'Impulso tentano di trovare un modo per riorganizzarsi e sottrarsi alla barbarie ed alla feroce follia dei "telepazzi" (detti nella seconda parte anche "cellulati": il termine originale è phonecrazies), ovvero delle vittime del devastante segnale telefonico.

Clay Riddell, ex disegnatore di fumetti, è tra coloro che disdegna l'uso dei cellulari, e questa sua abitudine lo sottrae al potente messaggio distruttivo. Mentre si trova per lavoro a Boston, Clay riesce a salvarsi dalle prime violente aggressioni dei suoi nuovi pericolosi abitanti e si mette in cammino per fare ritorno a casa, nel lontano Maine, dove spera di ritrovare sani e salvi la moglie Sharon ed il figlioletto Johnny. Strada facendo si raccolgono intorno a lui alcuni altri superstiti, che divengono la sua nuova famiglia: Tom, un gay di mezza età, garbato e riflessivo; Alice, una ragazza di soli quindici anni che, superato lo shock di aver visto impazzire la madre, diventa la leader inconfessata del gruppo; e infine Jordan, un ragazzino dodicenne, che - per un po' - ha dato assistenza all'anziano preside della sua scuola, prima di vederlo cadere vittima della barbarie dei "cellulati".

Le intuizioni dei due membri più giovani della squadra si rivelano fondate e consentono, un po' alla volta, di sciogliere alcuni degli enigmi conseguenti all'incidente che ha distrutto il mondo civile e di anticipare i possibili scenari futuri che attendono l'umanità.

Nonostante lo spirito d'iniziativa del gruppo, il viaggio verso la casa di Clay si trasforma in un'odissea sempre più drammatica e pericolosa, in cui le più oscure premonizioni di morte non esitano a tradursi da eventi di portata tragica e sconvolgente ad un vero incubo ad occhi aperti.

Gli essere umani colpiti dall'Impulso, in poco tempo, sviluppano una costante metamorfosi psichica, che li trasforma in creature dotate di poteri telecinetici e di una spaventosa volontà collettiva, assetata di vendetta. Clay e i suoi amici, colpevoli di aver eliminato con un attentato incendiario un'intera moltitudine di "telepazzi", diventano reietti e vengono condannati ad un'esecuzione esemplare da parte dei loro avversari, che li braccano ovunque.

Intanto, nel percorso verso casa, Clay scopre che suo figlio Johnny è ancora vivo, ma che è stato forzatamente sottoposto agli effetti devastanti dell'Impulso telefonico. Alice, la giovane amica di Clay, viene uccisa da un gruppo di vandali. Dopo un apocalittico confronto finale con la comunità dei "telepazzi" (che per via della loro demenza e dell'incapacità a sostentarsi sono comunque destinati ad estinguersi in poco tempo), Tom e Jordan si separano da Clay, che in questo modo riesce a ritrovare il suo bambino e tenta a modo suo di guarirlo dalla follia. I tre amici si lasciano con la promessa di ritrovarsi, se il loro destino lo permetterà, cosa che la conclusione del romanzo non rivela.


Riddell fosse un giovanotto in procinto di festeggiare una piccola vittoria (o forse nemmeno tanto piccola) con un piccolo tesoro, e si sarebbe colpito di nuovo nel segno. La cosa nel sacchetto era un fermacarte di cristallo di non poco prezzo, al centro del quale era imprigionata la grigia nuvoletta di un soffione. Lo aveva comprato durante il tra­gitto di ritorno dal Copley Square Hotel alla molto più umile Atlantic Avenue Inn dove alloggiava, intimorito dal cartellino da novanta dollari legato alla base del fermacar­te e forse ancor più intimorito dalla consapevolezza che ora potesse permettersi un simile acquisto.

Consegnare la carta di credito al commesso aveva ri­chiesto un coraggio quasi fisico. Dubitava che ce l'avreb­be fatta se quel fermacarte fosse stato per sé; avrebbe bor­bottato di aver cambiato idea e sarebbe scappato dal negozio.

Ma era per Sharon, a Sharon piaceva quel genere di oggetti, e gli voleva ancora bene: Forza, piccolo, faccio il tifo per te, aveva detto il giorno prima della sua partenza per Boston. Considerato il modo di merda in cui si erano trattati l'un l'altro per un anno intero, le sue parole lo avevano commosso. Ora desiderava commuovere lei, se fosse stato ancora possibile. Il fermacarte era una piccola cosa (un piccolo tesoro), ma era sicuro che avrebbe gradito la delicata nuvoletta grigia dentro il cristallo, come un banco di nebbia in miniatura.

L'attenzione di Clay fu richiamata dallo scampanio di un furgone dei gelati. Era fermo di fronte al Four Seasons Hotel (che era ancor più sontuoso del Copley Square), dalla parte del Boston Common, che su quel lato della strada fiancheggiava la Boylston per due o tre isolati. Le parole mister softee, nei colori dell'arcobaleno, erano sovrapposte a una coppia di coni gelato danzanti. Tre bambini, con gli zaini posati per terra, erano in fremente attesa.

Alle loro spalle c'erano una donna in giacca e pan­taloni che teneva al guinzaglio un barboncino e due ragaz­ze con i jeans sotto l'ombelico, munite entrambe di iPod e di auricolare, ora appeso al collo per potersi parlare sotto­voce, senza risolini, di faccende assai serie.

Clay si fermò dietro di loro, trasformando quello che era stato un piccolo gruppo in una breve coda. Aveva com­perato un regalo alla moglie separata; prima di tornare a casa si sarebbe fermato da Comix Supreme a prendere l'ultimo numero di Spiderman per il figlio; poteva pensare un poco anche a sé. Non vedeva l'ora di dare la notizia a Sharon, ma non avrebbe potuto contattarla finché non fos­se rincasata, verso le quattro meno un quarto.

Pensava di trattenersi almeno fino al momento di parlarle, più , che altro passeggiando avanti e indietro negli angusti confini della sua stanzetta e lanciando occhiate al suo portafoglio chiuso. Nel frattempo Mister Softee gli offriva un accettabile diversivo.

Dietro di loro, nel parco, un cane abbaiò e qualcuno gridò. A Clay non sembrò un grido gioioso, ma quando si girò a guardare vide solo qualche passante, un cane che trotterel­lava stringendo tra i denti un frisbee (ma non devono esse­re al guinzaglio? si chiese), una distesa di verde soleggia­to e oasi di ombra invitante.

Gli sembrò un ottimo posto dove un uomo che aveva appena venduto il suo primo ro­manzo a fumetti - nonché il suo seguito, entrambi per una somma sbalorditiva - avrebbe potuto andare a sedersi a mangiare un cono di gelato al cioccolato.

Quando tornò a guardare dall'altra parte, i tre bambini se ne erano andati e la signora con l'abito da donna in car­riera stava ordinando una coppa guarnita. Una delle due ragazze dietro di lei aveva un telefonino rosa agganciato al fianco e la rampante in carriera aveva il suo incollato al­l'orecchio.

Come gli accadeva quasi ogni volta in cui era testimone di una delle mille varianti di quel comporta­mento, Clay riflette che stava assistendo a un gesto che, se fino a poco tempo prima sarebbe stato giudicato di una maleducazione quasi intollerabile, seppure nel corso di una marginale transazione con un perfetto sconosciuto, stava ormai diventando un'accettabile ricorrenza della quotidianità.

Mettilo in Dark Wanderer, tesoro, disse Sharon.
   
Boston, 1° ottobre. È un bel pomerìggio di sole e, per Clayton Riddell, una giornata magnifica. E pro­prio in quell'istante il mondo finisce.

A milioni, tut­ti coloro che hanno un cellulare all'orecchio impaz­ziscono improvvisamente, regredendo allo stadio di belve feroci. Un misterioso impulso irradiato dagli apparecchi distrugge infatti il cervello in un attimo, azzerando la mente, la personalità, migliaia di anni di evoluzione.

Al posto dell'homo sapiens ora c'è un branco di sanguinali subumani privi della paro­la. Ma presto costoro cominciano a mutare e a orga­nizzarsi. Insieme ad altri scampati, Clayton percor­re di notte le città svuotate, in preda a un pensiero fisso: salvare la moglie e il figlio, rimasti soli nel Maine in balia di un telefonino... e conquistare al­l'umanità il diritto di coesistere con la nuova specie dominante.

Un capolavoro del Re, dove la fantasia e la riflessione sui falsi miti del nostro tempo danno vita a una storia terribilmente plausibile.

La civiltà scivolò nella sua seconda era di tenebre su una prevedibile scia di sangue, ma a una velocità che nemmeno i futurologi più pessimistici avrebbero potuto pronosticare. Fu quasi come se non vedesse l'ora di finirci. Il primo giorno di ottobre, Dio era nel Suo para­diso, l'indice di Borsa era a 10,140 e quasi tut­ti gli aerei erano puntuali (eccetto quelli che at­terravano o decollavano da Chicago, e c'era da aspettarselo).

Due settimane dopo il cielo apparteneva di nuovo agli uccelli e il mercato azionario era un ricordo. A Halloween, tutte le metropoli del mondo, da New York a Mosca, puzzavano fino alle stelle e il mondo di prima era un ricordo.

Il fenomeno che in seguito avrebbe preso il nome di Im­pulso ebbe inizio alle 15.03 del 1° ottobre, ora di New York. La definizione era naturalmente imprecisa, ma a dieci ore dall'evento quasi tutti gli scienziati in grado di farlo notare erano o morti o impazziti. In tutti i casi il no­me contava poco. Quello che contava era l'effetto.

Alle tre di quel pomeriggio, un giovane di non partico­lare importanza per la storia scendeva per Boylston Street, a Boston, con un passo elastico che era quasi una danza. Si chiamava Clayton Riddell.

L'evidente espressione sod­disfatta che aveva sul viso s'accordava con la spigliatezza dell'andatura. Nella mano sinistra impugnava la maniglia di un portfolio da artista, di quelli che si chiudono con delle serrature a scatto e diventano una valigetta. Attorei­gliato alle dita della sinistra aveva il laccio di un sacchetto di plastica marrone sul quale, per chi si fosse preso il di­sturbo di leggerlo, c'era il logo piccoli tesori.



La Sharon che conservava nella mente parlava spesso ed era prevedibile che dicesse la sua. Tanto era vero anche della Sharon reale, con o senza separazione.

Non però chia­mandolo sul cellulare. Clay non l'aveva.

La proprietaria del telefono che squillava se lo staccò dal fianco e disse: «Beth?» Ascoltò, sorrise, poi disse all'arnica: «È Beth». Allora l'altra ragazza si sporse in avanti e ascolta­rono insieme, capelli corti e sfrangiati tutte e due, pettina­ture quasi identiche (a Clay sembravano quasi personaggi di un cartone del sabato mattina), accarezzati dallo stesso venticello pomeridiano.

«Maddy?» disse quasi contemporaneamente la donna in completo. Il suo barboncino era ora seduto in un atteg­giamento contemplativo all'estremità del suo guinzaglio (il guinzaglio era rosso con i brillantino, a osservare il traffico di Boylston Street.

Sull'altro lato della strada, al Four Seasons, un portiere in uniforme marrone - sembra­va che dovessero essere sempre o marrone o blu - agitava il braccio, probabilmente per fermare un taxi.

Un caratteristico anfibio Duck Boat, stipato di turisti, altìssimo e im­probabile sulla terraferma, veleggiò via con il conducente che gridava nel megafono qualcosa di argomento storico.

Le due ragazze che ascoltavano il telefonino color menta si guardarono e sorrisero per qualcosa che stavano uden­do, però ancora senza ridacchiare.

«Maddy? Mi sentì? Mi sentì...»

La donna in carriera alzò la mano in cui stringeva il guinzaglio e si ficcò il dito, con l'unghia lunga, nell'orecchio libero.

Clay rabbrividì temendo per il suo timpano.









Immaginò di disegnarla: il cane al guinzaglio, il completo e pantaloni, i capelli corti alla moda... e un rivolino (li sangue intorno al dito nell'orecchio. La Duck Boat sul margine e il portiere in secondo piano, tutte quelle cose Che danno verosimiglianza a una vignetta. Sì, era quel che el voleva.

«Maddy, non ti ricevo! Volevo solo dirti che mi sono fatta fare i capelli da quel nuovo... i miei capelli?... I MIEI...»

Il tizio sul furgone si protese a porgerle la coppa guar­nita: un Monte Bianco dalle pendici solcate da cioccolato e crema di fragola. La sua faccia ruvida di barba non rasa­ta era impassibile. Diceva che aveva già visto tutto quanto, e perlomeno due volte. Clay ne era certo. Nel parco qual­cuno gridò. Clay si girò di nuovo a guardare dicendo a se stesso che era stato un grido di gioia. Alle tre del pomerig­gio, un pomeriggio di sole al Boston Common, non pote­va non essere un grido di gioia. Giusto?



La donna disse a Maddy qualcosa di incomprensibile e richiuse il cellulare con un esercitato colpo del polso. Lo lasciò ricadere nella borsetta, poi rimase lì, come se aves­se dimenticato che cosa stesse facendo o forse persino do­ve si trovasse.

«Fanno quattro e cinquanta», disse il gelataio che anco­ra le porgeva pazientemente la coppa. Clay ebbe tempo di riflettere su quanto tutto in città fosse così schifosamente costoso. Forse lo aveva pensato anche la signora vestita da donna in carriera - almeno tale fu la sua prima impressio­ne - perché per un momento ancora non fece niente, restò lì a guardare la montagna di gelato e sciroppo gocciolante come se non avesse mai visto niente del genere.

Poi dal Common giunse un altro grido, questa volta non umano, un verso che stava a metà tra un guaito di sor­presa e uno gnaulio di dolore. Clay si girò a guardare e vi­de il cane che prima trotterellava con il fresbee in bocca. Era bruno, di dimensioni discrete, forse un Labrador, lui non conosceva bene i cani, quando aveva bisogno di dise­gnarne uno lo copiava da un libro.

Accanto a lui c'era un uomo in giucca e cravatta inginocchiato, lo teneva prigioniero per il collo e sembrava che gli stesse - no, non sto vedendo quello che credo di vedere, pensò Clay - masti­cando un orecchio. Poi il cane guai di nuovo e cercò di di­vincolarsi. L'uomo in giacca e cravatta lo tenne fermo, e sì, era proprio l'orecchio del cane, quello che aveva in bocca l'uomo, e mentre Clay continuava a guardare, glie­lo strappò dalla testa. Questa volta il cane lanciò un grido quasi umano e alcune anatre che nuotavano nel laghetto poco distante si alzarono in volo starnazzando.

«Rasi!» gridò qualcuno dietro Clay. Così gli era sem­brato. Poteva anche essere una parola di senso compiuto, però ciò che successe dopo lo spinse a propendere per rast: non un vocabolo, ma piuttosto un'espressione inarti­colata di aggressività.

Tornò a guardare il furgone dei gelati in tempo per ve­dere la signora tuffarsi sul bancone nel tentativo di ag­guantare il gelataio. Riuscì ad acchiappare un lembo della sua casacca bianca, ma bastò l'unico passo all'indietro che lo stupore lo spinse a compiere, perché lei perdesse la presa.

L'espressione refrattaria, perbene, pubblica -ella che Clay considerava la non-espressione da indossare in strada - era stata sostituita da una smorfia contratta ohe le aveva stretto gli occhi in due fessure e messo in mo-Ntrn entrambe le arcate dei denti. Il suo labbro superiore si ira rovesciato completamente all'infuori, scoprendone l'interno vellutato e rosa, intimo come una vulva. Il suo barboncino scappò nella via, trascinando dietro di sé il guinzaglio rosso con in fondo il suo cappio. Sopraggiunse una limousine nera e travolse il barboncino prima che fos­se arrivato al centro della strada. Un batuffolo un attimo prima; budella un attimo dopo.


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Il turista che arriva in Liguria dopo essersi lasciato alle spalle la nebbia, il freddo, lo stress di città affollate si aspetta di incont...

Il turista che arriva in Liguria dopo essersi lasciato alle spalle la nebbia, il freddo, lo stress di città affollate si aspetta di incontrare un posto solare, che sguazza felice nel mare. Niente di più sbagliato: i liguri sono un popolo di montagna, chiuso, assai poco ospitale, e conquistarsi la loro fiducia e la loro amicizia è difficile quanto aggiudicarsi un lettino in prima fila a Ferragosto. Non sprecano nulla, meno che mai i sorrisi, e hanno molto a cuore il riciclo, specialmente dei regali ricevuti a Natale, che tengono stipati in soffitta insieme a quintali di inutili rapati. Orgogliosi e gelosi della bellezza delle loro spiagge, ma ancor più dei gioielli nascosti nell'entroterra, sono sempre un po' irritati all'idea di doverli dividere con turisti milanesi e tedeschi. I soldi che incassano (spesso in nero) non bastano a ripagarli di inquinamento, code, confusione, soprattutto perché, come ripetono a ogni estate i negozianti delle riviere, "quest'anno c'è poco movimento", e se c'è, "i turisti non spendono più come una volta". Questa guida vi insegnerà a conoscere il ligure per come è veramente, e a volergli bene lo stesso.

Dialogo tra un gelataio ligure e un celiaco
martedì 31 luglio 2012
- Buongiorno, ho letto in vetrina che ha i coni senza glutine. Quindi anche il gelato è senza glutine?
- Certo
- Benissimo. Me ne dà allora una vaschetta da portare a casa? Quella da ¾ di chilo va bene
- Che gusti?
- Stracciatella, menta, cioccolato
- Ecco fatto. Sono otto etti, lascio?
- Lasci pure
- Benissimo. Fa 14 euro e 80
- Bene. Mi dà anche due coni senza glutine, per favore?
- Certo. 16 e 80 in tutto
Momento di silenzio. Stupita incredulità
- Scusi, ma i coni me li fa pagare?
- Eh sì, mi dispiace, ma sono carissimi sa
- Quindi anche se vengo a prendere un gelato e chiedo il cono senza glutine, lo pago a parte?
- Sì. Un cono da 2 euro devo metterglielo 2 e 50
Momento di silenzio. Rapido calcolo
- Ho capito. Quindi se compro 2 euro di gelato, il cono me lo fa pagare 50 centesimi, mentre se compro 15 euro di gelato me lo fa pagare 1 euro?
Momento di silenzio. Vaghissimo, quasi inapprezzabile senso di colpa
- Guardi, comele dicevo sono molto cari ma posso farle un po' di sconto… invece di 16 e 80 facciamo 15 e 50, va bene?
- Va benissimo, in sostanza li pago solo 35 l’uno invece di 50, la ringrazio per quei 30 centesimi di sconto, so quanto le costa questa decisione, non tanto economicamente ma psicologicamente. Lo considero un dono speciale e stia sicuro che mi rivedrà qui molto presto
 
La grande maggioranza dei turisti che arriva in Liguria lo fa scendendo da Nord, dopo avere affrontato chilometri di neb­bia in inverno o di code in estate. Nonostante lo stress, il visi­tatore ha il cuore sereno, allegro, pronto a godersi mare, sole e uno splendido paesaggio. Poche emozioni valgono quella di lasciarsi alle spalle l'ultima galleria dell'autostrada e trovarsi davanti, improvvisamente, il mare di Liguria inondato di luce.
Verrebbe quasi automatico pensare che in questa re­gione meravigliosa abiti un popolo vivace, solare, portato a godersi la vita giorno per giorno. Niente di più sbagliato: al turista basteranno pochi giorni, anzi poche ore, per capire di non essere arrivato in un posto di spensierata vacanza, ma in un santuario che i suoi abitanti difendono con orgoglio e dove nessuno gli regalerà nulla, neppure un cenno di saluto.
In realtà bisogna stare attenti a parlare di Liguria e di liguri: come accade in altre regioni d'Italia, le rivalità muni­cipali sono molto forti e ogni città, ogni paese, è un mondo a parte dove tutti si sentono speciali e odiano i «cugini»: i savo­nesi non sopportano i genovesi, che a loro volta parlano male dei chiavaresi che non vedono di buon occhio gli spezzini e così via. Tanto per darvi un'idea, in nessun dialetto della re­gione esiste un termine per dire «Liguria».
Questo non vuoi dire che i liguri non esistano: a Ponente come a Levante, a Genova come alla Spezia il visitatore saprà riconoscere nella gente lo stesso tipo di accoglien­za (fredda), la stessa socievolezza (nulla), la stessa tirchieria (forte); insomma, una lunga serie di difetti, e qualche pregio, che dovrò imparare a sopportare, e se possibile a volgere in suo favore,
Un primo consiglio elementare è quello di sfruttare astu­tamente le rivalità della regione: se andate a Varigotti, esordite con un: «Arrivo adesso da Genova: che sporcizia, che genta­glia, che schifo!». Se siete alla Spezia, mostratevi sinceramen­te stupiti e costernati del fatto che non sia ancora stata crea­ta la regione autonoma della Lunezia. A Genova, lamentatevi dell'atmosfera fasulla che si respira a Portofino. E così via.

Ma soprattutto, dovunque vi troviate, evitate di ca­dere subito nell'errore tipico del principiante foresto: quello ili esaltare il mare, la spiaggia, e dire al vostro interlocutore: «beato lei che può andarsene in giro in barca...».
I veri liguri amano l'acqua più o meno come i gatti: hanno navigato sempre e solo per necessità, aspettando con ansia il momento di tornare alla loro casetta di campagna per coltivare l'orto. Sono legatissimi alla terra, hanno il caratte­re duro e chiuso tipico dei montanari, e non a caso la Liguria è territorio fertile per il reclutamento degli alpini. Perciò, se  volete entrare in confidenza con il bagnino o il tabaccaio, non ditegli: «Ho fatto una gita in barca all'isola Gallinara», ma piuttosto: «Mi piacerebbe arrampicarmi fino ad Aquila d'Arroscia». Li vedrete illuminarsi, si offriranno come guide e non è da escludere che vi portino a bere un quartino di quel­lo buono. A patto, ovviamente, che paghiate voi.
II mare, motivo principale che vi ha spinto in Liguria, per gli indigeni resta un nemico o perlomeno un avversario ila temere e rispettare, e da cui non ci si può aspettare nien­te di buono: «Mìga pe ninte u ciaman ma», dice il proverbio.
Vecchie glorie.
Come tutti i popoli che sono stati grandi e potenti e che la storia ha poi ridimensionato, i liguri hanno conserva­to un orgoglio e un'amarezza che li rendono spesso intratta­bili. La potenza politica ed economica del passato è legata soprattutto alla Repubblica di Genova, la cui fortuna comin­ciò intorno al 1100 con la partecipazione alla prima Crocia­ta e la conquista di Antiochia, Giaffa, Cesarea e molte altre colonie.
Genova fu protagonista assoluta della terza Crociata (1189-1191) e ne trasse la spinta per imporsi, durante tutto il Duecento, come la più grande potenza navale del Mediterra­neo e probabilmente la città più ricca d'Europa. I genovesi ave­vano possedimenti fino in Asia Minore, si erano spinti sul Mar Caspio e, giurano loro, commerciavano con la Cina ben prima che quel veneziano contafrottole si inventasse II Milione. Nes­suna crociata, nessuna esplorazione, nessuna impresa sarebbe stata possibile in quei secoli senza le navi della «Superba»: e anche il soprannome che scelsero per la città la dice lunga...
La decadenza navale cominciò nel quindicesimo seco­lo, quando Costantinopoli trascinò con sé nella sua caduta anche le colonie genovesi. La decadenza economica arrivò invece più tardi, perché i zeneizi furono abili a riciclarsi come banchieri e strozzini. Ma alla fine anche le palanche comin­ciarono a scarseggiare, e una volta persa l'indipendenza nel 1815, la Repubblica di Genova si ripiegò in se stessa, nelle grandi fabbriche di acciaio, nel porto, nell'assistenza statale.
Oggi le fabbriche non ci sono più, il porto soffre la con­correnza di altri scali europei meglio organizzati, lo Stato se n'ò andato alla chetichella. Ai genovesi è rimasta, però, la superbia (o l'orgoglio, a seconda dei punti di vista): quell'at­teggiamento impassibile tipico di chi sente di avere tanto visto e tanto vissuto ila non potersi più stupire di niente.
E sono rimasti, in fondo all'animo dei locali, tanto pes­simismo e tanta amarezza; e forse anche quella scontrosità che tulli considerano il loro più grave difetto.
Se la storia dei genovesi fosse la vita di un uomo, sareb­be quindi la storia di un giovane top manager da diecimila euro al mese, che va in vacanza nelle isole più esotiche e ha pote­re, amici, donne. Un giorno viene licenziato, perde fascino e amicizie, invecchia in fretta, finisce in pensione a quattrocen­to euro al mese e passa gli ultimi anni vagando per le strade come un barbone, spendendo le poche energie rimaste per mantenere il vestito buono e il cervello spieiato. Chiedergli ili MinidiTe ed essere felice, via, sarebbe davvero troppo.
E gli altri liguri? Molte città, durante tutto il Medioe­vo, furono fedeli alleate di Genova e ne seguirono la sorte nel bene e nel male: è il caso di quasi tutti i centri della Riviera di Levante. Altre, e principalmente Savona e qualche centro del Ponente, la combatterono sempre, invidiandone i succes­si e godendo delle sue sconfitte. Ma tutte le città della regio­ne, amiche e nemiche, vivevano in funzione di Genova e hanno ereditato un certo provincialismo, un complesso di inferiorità da cui cercano ancora oggi di liberarsi: ignorando il capoluogo, contestandolo, o minacciando periodicamente di staccarsi e creare nuove regioni collegate al Piemonte, alla Toscana o alla Francia.
Io penso negativo.
Genova si vanta spesso di essere «la città più inglese d'Italia», e come vedremo più avanti, inglesi e genovesi hanno molti aspetti caratteriali in comune. Se i loro «cugini» di Ol­tremanica si consolano giocando al Commonwealth, fingendo di essere ancora imperatori del mondo, i genovesi hanno ormai perso oltre alle sostanze anche le apparenze, e le uniche «colo­nie» rimaste (ma solo per affinità linguistiche: vi si parla il dia­letto di Pegli) sono Carloforte e Calassetta in Sardegna.

La scontrosità con i forestieri, tipica non solo dei geno­vesi ma di tutti gli abitanti della Liguria, è quindi quella dei nobili decaduti che per sopravvivere devono affittare il ca­stello ai barbari che scendono dal Nord Europa (o dal Nord Italia), e far loro da camerieri. Al retaggio imperiale risale un'altra delle caratteristiche dei liguri: non parlano, non di­scutono; più semplicemente, affermano. E hanno sempre una opinione su tutto, ovviamente opposta a quella dell'interlo­cutore «straniero». Contraddire un ligure significa fargli un grande regalo, perché gli permetterà non già di litigare (non ne siete degni) ma di ridicolizzare le vostre tesi, possibilmente con qualche paroTa in dialetto piazzata nei punti giusti del discorsi).
Non chiedete poi ai liguri di essere ottimisti, né di cre­dere che le cose miglioreranno: il futuro è una delle cose che odiano di più. Lo odiano perché porterà, ne sono certi, solo lutti e disgrazie.
11 ligure non ha fiducia nei progetti, nelle invenzioni, nel­le scoperte scientifiche. Ogni volta che esce qualcosa di nuovo, il ligure dirà che nuovo non è, perché ricorda perfettamente che già suo nonno aveva qualcosa di simile (ma funzionava meglio); oppure dirà che sì, è nuovo, ma non serve a niente. Insomma, si stava sempre meglio prima, e comunque l'oggi non o poi così male, se pensiamo a quello che ci aspetta domani.

Costano, i figli costano.
La scarsa fiducia nel futuro è uno dei motivi per cui nella regione si fanno pochi, pochissimi figli; anche se negli ultimi anni si è notata una discreta ripresa demografica, e non solo per l'arrivo degli immigrati. La vecchia battuta «Perché mettere al mondo un infelice?» devono averla inventata in Liguria. Un altro motivo è che i figli costano, e non è affatto chiaro che siano un buon investimento: nessun imprendito­re di buon senso assumerebbe un bambino appena nato, man­tenendolo e vestendolo a sbafo fino all'età lavorativa.

In ogni caso, l'anno 2000 ha portato a Genova un curio­so primato: quello di una prima elementare, in una scuola del centro storico, composta esclusivamente di bambini stranieri. Insomma, trovare un ligure «autentico» è sempre più difficile; il rhr non è necessariamente una gran perdita.
A proposito di figli: nella Legione straniera, un solda­to ligure sta scavando una trincea. Arriva il capitano e dice: «Parodi, c'è una lettera dei tuoi genitori».
«I miei genitori? E cosa vogliono? Avevo sei mesi quan­do mi hanno sbattuto fuori di casa!».
«Dicono che gli devi sei mesi di affitto arretrato».

Vecchietti terribili.
La Liguria è la regione più vecchia d'Italia. Orde di pensionati provenienti dal Nord vengono
belle giornate (l'inverno, quando il sole è tiepido e quasi pri­maverile, i vecchietti spuntano dai loro ripari, strisciano rapi­di come lucertole fino alla panchina preferita e restano lì a ricaricarsi, per ore, come batterie solari. I paesi di Liguria assu­mono allora il caratteristico, ìlare aspetto di un immenso ospi­zio all'aperto, con i rari passanti under 70 imbarazzati come parenti in visita.
Molto più viva e attiva, rispetto al pensionato da Riviera, è la vecchietta di Genova, cresciuta alla dura scuo­la della città tentacolare: è temibile soprattutto in occasio­ne dell'arrivo dell'autobus, che scatena in lei il timore ata­vico di essere spinta, calpestata e infine esclusa dai posti a sedere. Già alla fermata, la vecchietta comincia a studiare con sguardi obliqui gli avversar! potenzialmente più indife­si: non le altre vecchiette, con cui c'è un taciti) patto di non belligeranza, ma le casalinghe con le sporte e gli studenti distratti.

Non appena l'autobus arriva e apre le porte, la paci­fica vecchietta che non avevate neppure notato si trasfor­ma in una belva sanguinaria: una gomitata nel costato dello studente, un calcio alla sporta della casalinga, un'ombrella­ta al basso ventre del cassintegrato, ed eccola balzare sulla seggiola più vicina, dove passerà il resto del viaggio a bron­tolare perché il posto più comodo, quello rivolto nella dire­zione di marcia del bus, se l'è aggiudicato una signora più giovane di lei, così maleducata che non le ha ancora offer­to di fare cambio.
Se viaggia con altre coetanee, la vecchietta da autobus rinuncerà alle lamentazioni in cambio della sola cosa che le da ancora più soddisfazione: la conta dei morti e delle malattie. Racconterà sicuramente che sta andando in ospedale a trovare un'amica, o che c'è appena stata, il tutto scuotendo la testa e dicendo «non c'è più niente da fare».
E ricorderà il caso di un'amica che aveva gli stessi identici sintomi ed è morta dopo tre giorni, o della nipote di quell'altra amica che aveva solo vent'anni, poveretta, e se n'è andata da un giorno all'altro, e nessu­no ha capito perché.
In pochi secondi, quasi per solidarietà con il cassinte­grato che ha ricevuto l'ombrellata, tutti i passeggeri maschi avranno la mano in tasca, a strofinare le parti intime.
Biografia.

Sono nato a Genova il 26 settembre 1965. Sono una Bilancia perfetta, nel senso che ho tutte le caratteristiche del segno. E sono un ligure totale, nel senso che ho tutti i pregi e i difetti tipici dei liguri.
Vengo da una famiglia di maestri e professori, gente con un forte senso del dovere e qualche sogno nel cassetto: mio bisnonno Filippo progettava razzi per andare sulla luna, mio nonno Vittorio faceva il pugile. Mio nonno Gaetano viaggiava e collezionava qualunque cosa. I miei genitori sono stati entrambi, a lungo, archeologi.     
Ho cominciato ad appassionarmi al giornalismo a 16 anni: seguivo la pallacanestro femminile per una radio. Poi ho fatto l’usciere, il parcheggiatore, il distributore di volantini pubblicitari, il venditore porta a porta di calendari genovesi, il copywriter. Ma non mi serviva per mangiare, solo per pagarmi le vacanze mentre studiavo, quindi è stato tutto molto divertente. Ho sempre cercato di avere più Paesi del mondo visitati che anni di vita, e fino ai 37 ci sono riuscito. Ora sono sotto di tre. Il posto più bello che ho visitato è Fraser Island, in Australia, il più brutto la Romania di Ceausescu (ma anche la Costa Brava non scherza).
Sono stato assunto come giornalista al “Secolo XIX” di Genova nel 1990 e lavoro ancora lì, alle pagine di Interni, Esteri e Politica.
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Lincoln Rhyme, detective forense tetraplegico e quindi incapace di agire se non con il cervello, è alle prese con un nuovo caso. Amelia...

Lincoln Rhyme, detective forense tetraplegico e quindi incapace di agire se non con il cervello, è alle prese con un nuovo caso. Amelia Sachs, l'agente/amante già presente nei libri precedenti lo aiuta nel risolvere il caso difficile di un illusionista che uccide la gente con trucchi di magia, mettendoli alla prova con alcune delle più famose fughe di Houdini.

Tutto comincia in una scuola di musica di New York. Un killer, compiuto un omicidio, si chiude dentro una classe. In pochi minuti la stanza è circondata dalla polizia.

Improvvisamente dall'interno arriva un urlo, seguito da un colpo di arma da fuoco. Sfondata la porta, gli agenti si trovano di fronte a un mistero: nell'aula non c'è nessuno. Una nuova sfida per Lincoln Rhyme e la bella Amelia Sachs: per lei la risoluzione del caso potrebbe significare una promozione, mentre per Lincoln è solo l'ennesimo duello con un criminale che stavolta è anche un maestro dell'illusionismo, "il Negromante", che li provoca con delitti raccapriccianti e sparizioni sempre più diaboliche.

Attraverso l'illusionismo il Negromante, come viene soprannominato, riesce a sfuggire alla cattura numerose volte e, attraverso il trasformismo, può trasformare il suo aspetto fisico e il suo modo di comportarsi rendendo impossibile ai detective la sua cattura. Il tutto è ambientanto in un clima "caldo". Infatti in ballo c'è la fuga di un prigioniero politico, una vendetta e false identità.
 
Buona sera, Riveriti Spettatori. Benvenuti.
Benvenuti al nostro spettacolo.
Abbiamo moltissime eccitanti sorprese in serbo per voi nel corso dei prossimi due giorni, in cui i nostri illusionisti, i nostri maghi, ino­stri prestidigitatori tesseranno i loro incantesimi per divertirvi e in­trattenervi.
Il nostro primo numero è tratto dal repertorio dell'uomo di cui tutti hanno sentito parlare: Harry Houdini, il più grande artista del­la fuga d'America, se non del mondo, l'uomo che si è esibito di fron­te a teste coronate e presidenti degli Stati Uniti. Alcune delle sue fu­ghe sono così difficili che nessuno ha più osato tentarle, in tutti gli anni che sono trascorsi dalla sua morte prematura.
Oggi ricreeremo una fuga in cui Houdini ha rischiato il soffoca­mento in un numero noto come il Boia Pigro.
In questo trucco, il nostro artista giace prono sul ventre, le mani legate dietro la schiena con delle classiche manette Darby. Ha le ca­viglie legate e un altro pezzo di corda stretto attorno al collo, come un nodo scorsoio, e annodato alle caviglie. La naturale tendenza delle gambe a raddrizzarsi stringe il nodo scorsoio dando inizio al terribile processo del soffocamento.
Perché questo numero viene chiamato il Boia "Pigro"? Perché è lo stesso condannato a eseguire la sentenza.
In molti dei più pericolosi numeri del signor Houdini, erano pre­senti assistenti con coltelli e chiavi per liberarlo nel caso non fosse riuscito a mettere in atto la sua fuga. Spesso era presente anche un dottore.
Oggi non verrà presa nessuna di queste precauzioni. Se non riu­scirà a fuggire entro quattro minuti, l'artista morirà.
Cominceremo tra un attimo... ma prima qualche parola di avver­timento:

Non dimenticate mai che entrando nel nostro spettacolo comin­cerete ad abbandonare la realtà.
Ciò che sarete assolutamente convinti di vedere potrebbe non esi­stere affatto. Quella che secondo voi non può essere che un'illusione potrebbe rivelarsi come la severa verità di Dio.
Il vostro compagno nel nostro show potrebbe rivelarsi in realtà un completo sconosciuto. Un uomo o una donna tra il pubblico che non riconoscete potrebbe conoscerviper sino troppo bene.
Ciò che sembra sicuro potrebbe essere mortale. E i pericoli da cui vi guardate potrebbero essere solo distrazioni per attrarvi verso un pericolo più grande.
Nel nostro spettacolo, a cosa potrete credere? Di chi vi potrete fi­dare?
Be', Riveriti Spettatori, la risposta è che non dovreste credere a niente.
E che non dovreste fidarvi di nessuno. Proprio di nessuno.
Ora il sipario si alza, le luci si abbassano, la musica sfuma, la­sciando solo il suono sublime di cuori che battono nell'attesa.
E il nostro spettacolo ha inizio...
L'edificio doveva aver visto un bel po' di spettri.
Gotico, sudicio, oscuro. Stretto tra due grattacieli dell'Upper West Side, sormontato da una balaustra di ferro battuto, aveva molte finestre, rotte. Costruito durante l'era vittoriana, era stato prima un convitto e più tardi un manicomio giudiziario, dove i paz­zi criminali avevano consumato le loro tragiche esistenze.
La Manhattan School of Music and Performing Arts avrebbe potuto ospitare una dozzina di spiriti.
Ma nessuno così vicino quanto quello che adesso stava aleg­giando sopra il corpo caldo della giovane donna che giaceva prona nel vestibolo poco illuminato del piccolo teatro. I suoi occhi erano Immobili e sgranati ma non ancora vitrei e il sangue sulle sue guan-Cfl non era ancora marrone.
Il tuo viso era scuro come una prugna a causa della costrizione dilli Stretta corda che le legava il collo alle caviglie.
Attorno a lei erano sparpagliati una custodia da flauto, spartiti • un grande bicchiere rovesciato di Starbucks, il caffè che le mac­chiava I jcMtm e la camicia verde Izod e disegnava una virgola di li­quido «curo mi! pavimento di marmo.
Era predente anche l'uomo che l'aveva uccisa, chino su di lei per esaminarla con attenzione. Era calmo e non sentiva alcun biso­gno di fare in fretta. Oggi era sabato, ed era ancora presto. Come ben sapeva, durante i weekend a scuola non si tenevano lezioni. Gli studenti usavano le sale prove, ma queste si trovavano in un'altra ala dell'edificio. L'uomo si chinò ancora di più sulla donna, striz­zando gli occhi, chiedendosi se avrebbe visto una qualche essenza, uno spirito forse, sollevarsi dal suo corpo. Non vide niente.
Si raddrizzò, pensando a cos'altro avrebbe potuto fare alla for­ma immobile di fronte a lui.
"È certo che fossero delle grida?"
"Sì... No", disse la guardia di sicurezza. "Forse non erano gri­da, capisce. Urla. Preoccupate. Per un secondo o due. Poi si sono fermate."
L'agente di pattuglia Diane Franciscovich, che lavorava al Ventesimo Distretto, continuò: "Qualcun altro ha sentito qual­cosa?"
La guardia massiccia, che respirava rumorosamente, lanciò un'occhiata all'agente alta e bruna, scosse la testa e strinse e aprì le grandi mani. Si passò i palmi scuri sui pantaloni blu.
"Chiamiamo i rinforzi?" domandò Nancy Ausonio, un'altra giovane agente di pattuglia, bionda e più bassa della sua partner.
Franciscovich non pensava che fosse necessario, anche se non ne era sicura. Gli agenti che pattugliavano quel tratto dell'Upper West Side si occupavano per lo più di incidenti stradali, taccheggi, furti d'auto e di confortare le persone aggredite e sotto choc. Era la prima volta che accadeva una cosa del genere - mentre stavano facendo il loro giro di controllo del sabato mattina, le due agenti erano state avvistate e chiamate dentro la scuola dalla guardia di si­curezza perché lo aiutassero a controllare l'origine delle grida. Be', delle urla preoccupate.
"Aspettiamo un momento", rispose calma Franciscovich. "Stiamo a vedere che cosa succede."
La guardia disse: "Sembrava che provenissero da qualche par­te qui dentro. Non so".
"Che posto spettrale", disse Ausonio, stranamente a disagio. Era un'agente sempre pronta a buttarsi nel bel mezzo di una mi­schia anche se doveva affrontare uomini grossi due volte lei.
"I suoni, sapete. Difficile capire. Capite cosa sto dicendo? Dif­ficile capire da dove arrivano."
Frunciscovich era concentrata su ciò che aveva detto la sua col­lega. Un posto dannatamente spettrale, aggiunse mentalmente.
Dopo che i tre ebbero percorso quelli che sembravano chilo­metri ili corridoi senza trovare niente fuori dall'ordinario, la guar­dia di sicurezza si fermò.
Con un cenno, Franciscovich indicò una porta di fronte a loro.
"Cosa c'è qui?"
"Non c'è motivo per cui debbano esserci degli studenti. È so­lo..."
Franciscovich aprì la porta.
Si ritrovarono in un piccolo vestibolo su cui si apriva un'altra porta sulla quale era scritto "Teatro A". E vicino a quella porta c'e­ra il corpo di una giovane donna, legata stretta, un cappio attorno al collo, i polsi ammanettati. Gli occhi aperti nella morte. Un uo­mo sui cinquant'anni con i capelli scuri e la barba era chino su di lei. L'uomo alzò lo sguardo, sorpreso dalla loro entrata.
"No!" gridò Ausonio.
"Oh, Cristo", gemette la guardia.
Gli agenti estrassero le loro armi e Franciscovich puntò la pi­stola sull'uomo con quella che, pensò, era una mano straordinaria­mente salda. "Tu, non muoverti! Alzati lentamente, allontanati da lei e alza le mani." La sua voce era molto meno ferma delle dita strette attorno all'impugnatura della Clock.
L'uomo obbedì.
"Sdraiati, faccia a terra. Tieni le mani in vista! "
Ausonio fece un passo verso la ragazza.
Fu Franciscovich a notare che la mano destra dell'uomo, sopra la sua testa, era stretta in un pugno.
"Aprila..."
Pop...
Il flash di luce abbagliante riempì la stanza e l'accecò. Il lampo parve scaturire direttamente dalla mano del sospetto e brillò per qualche istante prima di spegnersi. Ausonio si fermò di colpo e Franciscovich si accovacciò, arretrando e strizzando le palpebre, facendo oscillare la pistola a destra e a sinistra. Era in preda al pa­nico, sapeva che il killer aveva tenuto gli occhi chiusi per proteg­gerli dal flash e ora probabilmente stava puntando su di loro la sua arma o era sul punto di aggredirli con un coltello.
"Dove, dove, dove?" gridò.
Poi - vagamente, a causa della vista offuscata e del fumo che si stava disperdendo - vide l'assassino correre nel teatro e chiudere la porta sbattendola. Si udì il rumore attuato di una sedia o un tavo­lo spinto contro la porta.
Ausonio cadde in ginocchio accanto alla ragazza. Con un col­tellino svizzero tagliò la corda che le stringeva il collo, la fece roto­lare supina e, usando un boccaglio usa e getta, cominciò a prati­carle la procedura di rianimazione.
"Ci sono altre uscite?" gridò Franciscovich alla guardia.
"Solo una, sul retro, dietro l'angolo. A destra."
"Finestre?"
"No."
"Ehi", disse ad Ausonio mentre scattava. "Tieni d'occhio que­sta porta!"
"Ricevuto ! " rispose l'agente bionda e soffiò un altro respiro tra le labbra pallide della vittima.
Altri colpi dall'interno del teatro mentre l'assassino rinforzava la sua barricata; Franciscovich svoltò di corsa l'angolo diretta alla porta di cui le aveva parlato la guardia, mentre chiedeva rinforzi al­la centrale con il suo Motorola. In quel momento vide davanti a sé qualcuno fermo in fondo al corridoio. Franciscovich si fermò di colpo, puntò la pistola in dirczione del petto dell'uomo e il fascio di luce brillante della torcia alogena sul suo volto.
"Oh, Signore", gracchiò il vecchio custode, lasciando cadere a terra la scopa che aveva tra le mani.
Franciscovich ringraziò Dio per averle tenuto il dito lontano dal grilletto della Clock. "Ha visto qualcuno uscire da questa porta?"
"Cosa succede?"
"Ha visto qualcuno?" gridò Franciscovich.
"No, signora."
"Da quanto tempo è qui?"
"Non lo so. Forse dieci minuti."
Giunse un altro suono dall'interno mentre l'assassino conti­nuava a bloccare la porta. Franciscovich ordinò al custode di andare nel corridoio principale insieme alla guardia di sicurezza, quindi si avvicinò alla porta laterale. Tenendo la pistola all'altez­za degli occhi, provò a ruotare dolcemente la maniglia. La porta era aperta. Le si mise accanto in modo da non trovarsi sulla linea di tiro, nel caso l'assassino avesse deciso di sparare attraverso il legno. Un trucco che ricordava di aver visto in New York Police Department, anche se forse lo aveva sentito da un istruttore del­l'Accademia.
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Questa volta la storia inizia su una nave che porta a bordo dei clandestini verso la terra della libertà, gli USA. Sulla nave è presente...


Questa volta la storia inizia su una nave che porta a bordo dei clandestini verso la terra della libertà, gli USA. Sulla nave è presente un uomo senza scrupoli, detto lo Spettro. Lyncoln Rhyme, il famoso consulente della polizia di New York è sulle sue tracce, riuscendo addirittura a capire dove mandare le forze di polizia ad aspettare lo sbarco. Lo Spettro fiuta qualcosa e fa scatenare l'inferno, tanto per tenere alto il suo nome...
Si scatena una caccia all'uomo, le indagini dovranno varcare dei confini praticamente vietati. Rhyme ha finalmente un avversario degno di questo nome davanti a lui.

Il nome del romanzo è "scimmia di pietra", un esplicito riferimento ad un portafortuna che incontreremo dalle prime pagine...

Quest'oggi ho intenzione di parlarvi dell'ennesimo libro dello scrittore statunitense, Jeffery Deaver. Dopo aver parlato di "la sedia vuota" è giunto il momento per la successiva indagine di uno dei personaggi che più preferisco nel panorama letterario moderno, ovvero Lincoln Rhyme. Vi parlerò di "La scimmia di pietra".
Prima di iniziare volevo un pò raccontare, a grandi linee, quella che è la storia di questo personaggio, anche per perpararvi a quel pezzo della sua vita che si trova in questo romanzo, con i relativi retroscena e i vari collegamenti.

Lincoln Rhyme è un criminologo, uno dei più grandi esperti per quanto riguarda le indagini sulla scena del delitto. E' più uno scienziato che un tutore dell'ordine, e lo dimostra la sua straordinaria dimestichezza con le prove.

Rhyme è convinto che un caso può essere risolto, senza alcuna ombra di dubbio, con l'analisi dettagliata delle prove rinvenute sulla scena del delitto, poichè ha poca fiducia nell'uomo, nel testimone, perchè mente.

Questo è il grande pregio di Lincoln. Ma ha anche un difetto, uno di quelli che ti porta inevitabilmente ad andar via dalla polizia per fare il consulente esterno, uno di quelli che ti costringe a stare in un letto o in una sedia a rotelle sofisticata. Lincoln Rhyme a seguito di un gravissimo incidente (sempre in quella famosa scena del crimine) ha perso l'uso di quasi tutti i suoi muscoli (può muovere testa, parte delle spalle e un solo dito)... Rhyme è un tetraplegico.

Questa disgrazia, l'impossibilità di fare tutto quello che fa qualsiasi essere umano, lo ha portato spesso a pensare di farla finita con la vita... la sua salvezza è stata Amelia Sachs, prima suo braccio destro, poi anche sua amica ed infine qualcosa di più. Grazie a lei ha ritrovato la voglia di risolvere i casi, poichè se lui è la mente Amelia è sicuramente il braccio, colei che agisce sul posto seguendo le sue direttive.
Questa coppia la ritroviamo, più in forma che mai, in questo romanzo... tra loro non mancano gl'attriti, ma chi altri può risolvere i casi più complessi?

Ne "La scimmia di Pietra", Lincoln e Amelia si trovano di fronte all'ennesimo caso impossibile. Questa volta hanno a che fare con qualcosa di grosso, devono dare la caccia allo "spettro", un trafficante di esseri umani cinese.

Lo spettro si trova su una nave che trasporta, oltre al normale carico, anche diversi clandestini, che hanno pagato con i risparmi di una vita un viaggio verso il sogno, verso gli Stati Uniti d'America. Grazie all'analisi di alcune prove, unite ad un intuito infallibile, Lincoln è riuscito a finire sulle tracce del famigerato criminale...
Ancora una volta, in una frenetica lotta contro il tempo, Lincoln ed Amelia dovranno trovare lo spettro, affinchè questi non uccida i clandestini che sono scampati all'esplosione della nave che li strava trasportando...

L'ennesima prova per i nostri due eroi, l'ennesimo libro pieno di suspence e colpi di scena. Seppur l'indagine appaia insolita, ancora una volta Deaver riesce a catturare l'attenzione del lettore e lo colpisce con un romanzo indimenticabile.

Personalmente credevo di trovarmi di fronte un leggero calo di prestazione dello scrittore, dopo aver letto in successione i primi libri che narravano le vicende di Rhyme.. per fortuna mi sono sbagliato e mi ritengo più che soddisfatto.

Aumenta dunque la stima per questo scrittore e la passione per i suoi romanzi, uno più bello dell'altro.
 
A differenza della maggior parte dei capitani e degli equipaggi che pilotavano i "secchi" - le navi usate per il traffico di esseri umani - e che nel migliore dei casi ignoravano o persino picchiavano o violentavano i passeggeri, Sen non trattava male i clandestini. Anzi, era convinto di fa­re qualcosa di buono per loro: stava aiutando quelle famiglie ad abban­donare una vita di stenti per raggiungere quantomeno la speranza di un'esistenza felice in America, Meiguo in cinese, che significa lo "Splen­dido Paese". In quel particolare viaggio, comunque, i clandestini per la maggior parte non si fidavano di lui. E chi avrebbe potuto biasimarli? Davano per scontato che Sen fosse in affari con la testa di serpente che aveva noleggiato il Dragone di Fuzhou: Kwan Ang, universalmente noto con il suo soprannome Gui, lo Spettro. Macchiati dalla terribile reputa­zione della testa di serpente, gli sforzi del capitano per comunicare con i clandestini erano stati del tutto vani e gli avevano fatto guadagnare un unico amico. Chang Jingerzi - che preferiva essere chiamato con il suo nome occidentale, Sam Chang - era un ex insegnante di quarantacinque anni della periferia della grande città portuale di Fuzhou, situata nella Ci-na sudorientale. Assieme a lui viaggiava tutta la sua famiglia: la moglie, i due figli e il padre, ora vedovo.

In una decina di occasioni durante il viaggio, Chang e Sen aveva­no sorseggiato insieme nella stiva il potente mao-tai che il capitano non si faceva mai mancare durante i viaggi e avevano parlato della vita in Cina e negli Stati Uniti.

Il capitano vide Chang seduto su una branda in un angolo della stiva. L'uomo alto e dall'aria placida si accigliò subito non appena notò lo sguardo fin troppo eloquente del capitano. Chang porse al figlio adolescente il libro che stava leggendo ad alta voce ai suoi familiari e si alzò per andargli incontro.

Tutt'attorno a loro calò il silenzio.

"Il radar mostra una nave che si avvicina velocemente alla nostra rotta per intercettarci."

Sui volti di coloro che avevano sentito comparve un'espressione di cupo sconforto.

"Gli americani?" chiese Chang. "La loro Guardia Costiera?"

"Penso di sì", rispose il capitano. "Siamo in acque statunitensi."

Sen guardò i volti terrorizzati dei clandestini attorno a lui. Come accadeva alla maggior parte degli irregolari che aveva trasportato, an­che tra loro - molti erano perfetti sconosciuti che non si erano mai incentrati prima - si era formato un saldo legame di amicizia. E ora si stringevano le mani gli uni con gli altri e si scambiavano a bassa voce parole rassicuranti. Gli occhi del capitano indugiarono su una donna che teneva tra le braccia una bambina di diciotto mesi. La madre, che era rimasta sfregiata in seguito a un pestaggio in un campo di rieduca­zione, chinò il capo e cominciò a piangere.

"Cosa possiamo fare?" chiese Chang, preoccupato. Il capitano Sen sapeva che l'uomo era un dissidente e che era stato spinto a parti­re dal bisogno disperato di abbandonare il suo paese. Se fosse stato espulso dall'Ufficio Immigrazione americano, probabilmente sarebbe finito in una delle famigerate prigioni della Cina occidentale come pri­gioniero politico.
"Non siamo lontani dal punto dello sbarco. Stiamo procedendo a tutta velocità. Forse riusciremo ad avvicinarci abbastanza alla costa perché possiate abbandonare la nave sulle scialuppe."
"No, no", disse Chang. "Con queste onde? Moriremmo tutti."

"Mi sto dirigendo verso un'insenatura naturale. Lì, le acque do­vrebbero essere abbastanza calme perché possiate usare le scialup­pe. Sulla spiaggia troverete i camion che vi porteranno a New York."

"E lei che cosa farà, capitano?" chiese Chang.

"Mi ritufferò nella tempesta. Quando la Guardia Costiera mi rag­giungerà, voi starete già viaggiando su autostrade d'oro diretti alla città di diamanti... Ora dica a tutti gli altri di raccogliere le loro cose. Ma solo quelle più importanti. Il denaro, le fotografie. Lasciate tutto il resto. Dovrete raggiungere la riva il più in fretta possibile. Rimarre­te qui sotto finché lo Spettro o io non vi daremo il segnale."

Il capitano Sen imboccò velocemente la scala ripida diretto al Me di comando. Mentre saliva, pronunciò una breve preghiera per loprawivenza di quelle persone a Tian Hou, la dea dei marinai,
udì schivò una parete di acqua grigia che si abbattè su un fianco della nave.

Sul ponte di comando trovò lo Spettro chino sopra il radar, lo io fisso sulla sua luce fioca. L'uomo era completamente immo-I nonostante il mare in tempesta.

Alcune teste di serpente si vestivano come ricchi gangster cantoI usciti da un film di John Woo, ma lo Spettro preferiva indossare \ tenuta comune a quasi tutti gli uomini cinesi: semplici pantaloni e Mmiciu con le maniche corte. Era muscoloso ma minuto, ben rasato e •VtVt i capelli più lunghi di quelli di un tipico uomo d'affari ma non UUV* né gel né lacca.

"Ci intercetteranno nel giro di quindici minuti", disse la testa di serpente. Persino ora, di fronte alla prospettiva dell'arresto, sembrava imperturbabile e letargico come un bigliettaio della stazione degli au­tobus di un remoto villaggio rurale.

"Quindici minuti?" ripetè il capitano. "Impossibile. A quanti no­di stanno procedendo?"

Sen si avvicinò al tavolo coperto da carte nautiche, il fulcro vero e proprio di tutte le navi che attraversano gli oceani. Sul ripiano c'era una mappa di quel tratto di mare dell'Agenzia Cartografica del Ministero del­la Difesa americano. H capitano poteva basarsi solo su quella carta e sul radar per stabilire le posizioni relative delle due imbarcazioni; e questo perché, a causa del rischio di essere rintracciati, il sistema di posiziona­mento globale, il radiofaro EPffiB e il Sistema Globale di Sicurezza Ma­rittima del Dragone erano scollegati.

"Penso che ci vorranno almeno quaranta minuti. " "No, ho controllato la distanza che hanno coperto da quando ci hanno individuati. "

II capitano Sen lanciò un'occhiata al membro dell'equipaggio che stava pilotando il Dragone di Fuzhou, madido di sudore mentre strin­geva con tutte le sue forze il timone nel disperato tentativo di mante­nerlo allineato con lo scafo della nave. I motori stavano andando a tut­ta forza. Se i calcoli dello Spettro erano esatti, sarebbero stati inter­cettati prima che potessero raggiungere l'insenatura. Nel migliore dei casi sarebbero arrivati a mezzo miglio dalla riva sassosa — abbastanza vicini da calare le scialuppe ma non abbastanza da proteggerle dalla tremenda violenza dei flutti.

Lo Spettro chiese al capitano: "Che genere di armi avranno?" "Non lo sa?"

"Non sono mai stato intercettato prima", rispose lo Spettro. "Mi dica."

Sen era stato al comando di due navi fermate dalla Guardia Co­stiera in passato - fortunatamente in entrambi i casi i carichi erano sta­ti perfettamente legali, tuttavia quegli incontri erano stati davvero traumatici. Una quindicina di uomini della Guardia Costiera avevano invaso la nave mentre un altro agente sul ponte della lancia aveva te­nuto sotto tiro lui e l'equipaggio con un fucile mitragliatore. Per non parlare del piccolo cannone puntato su di loro.
Il capitano spiegò allo Spettro che cosa avrebbero potuto aspettarsi. Lo Spettro annuì. "Dobbiamo riflettere sulle nostre opzioni." "Quali opzioni?" domandò Sen. "Non starà pensando di opporre resistenza, vero? No. Non lo permetterò."

La testa di serpente non rispose e rimase a fissare lo schermo del radar.

L'uomo sembrava tranquillo ma, pensò Sen, doveva essere fu­rioso. Nessuna delle teste di serpente con cui aveva lavorato aveva mai preso così tante precauzioni per evitare la cattura. I trenta clan­destini si erano radunati in un magazzino abbandonato della peri­feria di Fuzhou e avevano atteso lì per due giorni sotto lo sguardo vigile di un socio dello Spettro - una "piccola testa di serpente". Poi l'uomo aveva fatto salire i cinesi su un Tupolev 154 preso a noleggio che li aveva portati a una base aerea abbandonata nei pressi di San Pietroburgo, in Russia. Lì, i clandestini erano saliti su un container trasportato per 120 chilometri fino alla città di Vyborg e caricato sul Dragone di Fuzhou che Sen aveva fatto attraccare nel porto russo proprio il giorno prima. Il capitano aveva compilato meticolosa­mente i documenti e le scartoffie della dogana - tutto con estrema, precisione in modo da non far sorgere il benché minimo sospetto.

Non c'era niente in quel viaggio che potesse aver insospettito le autorità americane. "Ma come ha fatto la Guardia Costiera?" chiede il capitano.

"A fare cosa?" rispose lo Spettro in tono assente. *A scoprirci. Nessuno poteva farcela, è impossibile." Lo Spettro raddrizzò le spalle e prima di uscire dal ponte di comando si voltò e disse:

"Chi può saperlo? Magari è stata una magia".
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