Home » , » Hanno Sete di Robert McCammon è un capolavoro assoluto della letteratura vampirica da uno dei maestri incontrastati dell'horror.

  Hanno Sete (They Thirst bell'originale in inglese) è il terzo libro di Robert McCammon pubblicato nel 1981. Un male vecchio come...

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Hanno Sete (They Thirst bell'originale in inglese) è il terzo libro di Robert McCammon pubblicato nel 1981.

Un male vecchio come il mondo si è trasferito dalle lande desolate di un paese dell'est europeo nel calderone ribollente della Città degli Angeli, più di otto milioni di persone e un campionario di ogni genere di umanità... Il contagio che questo male porta con sé si diffonde, prima lentamente, poi in proporzione geometrica: la città e l'intera nazione sono minacciate, poi toccherà al resto del mondo.

Uno sparuto gruppetto di persone si frappone al piano di un Principe Non-Morto: un detective della omicidi che quel male ha conosciuto durante la sua infanzia, un prete condannato a morte da una malattia incurabile, un attore della televisione che cerca di strappare la donna amata a un destino peggiore della morte, una giornalista abituata a rimestare nel torbido e un bambino che vuole vendicare l'uccisione dei suoi genitori. Le armi con cui combattono sono poche e inadeguate, ma la loro arma migliore è la fede...

Dopo Dracula di Bram Stoker e Le notti di Salem di Stephen King, un capolavoro assoluto della letteratura vampirica da uno dei maestri incontrastati dell'Horror.

TRAMA

Quella notte c'erano dei demoni nel focolare.

Facevano mulinello, si inarcavano e mandavano scintille negli occhi del bambino che sedeva accanto al fuoco, le gambe incrociate sotto di sé in quel modo inconsapevole che hanno i ragazzi di essere snodati. Il mento sorretto dal palmo delle mani, i gomiti sostenuti dalle ginocchia, sedeva in silenzio, guardando le fiamme riunirsi, fondersi e scoppiare in frammenti che sibilavano segreti. Aveva compiuto nove anni solo sei giorni prima, ma adesso si sentiva grande, perché papà non era ancora tornato a casa e quei demoni nel fuoco stavano ridendo.

Mentre sono via sarai tu il capo della casa, aveva detto papà, avvolgendo un tratto di spessa corda attorno a quella zampa d'orso che era la sua mano. Devi aver cura di tua madre e assicurarti che tutto vada bene mentre io e tuo zio siamo via. Chiaro?

Sì, papà.

E vedi di portarle dentro la legna quando te lo chiede, e sistemala bene lungo la parete in modo che possa asciugarsi. E qualsiasi altra cosa ti chiederà, la farai, vero?

La farò. Gli sembrava ancora di vedere torreggiare sopra di sé il volto di suo padre screpolato e segnato dal vento e di sentire sulla spalla la sua mano ruvida come una pietra del camino. La presa di quella mano gli aveva trasmesso un messaggio silenzioso: È una cosa seria quella che sto facendo, ragazzo. Non fare errori. Bada a tua madre e sii prudente.

Il bambino aveva detto di aver capito e papà aveva annuito soddisfatto.

Il mattino seguente aveva guardato dalla finestra della cucina lo zio Joseph che agganciava i due vecchi cavalli grigi e bianchi al carro. I genitori si erano appartati, in piedi dall'altra parte della stanza vicino alla porta assicurata con una grossa spranga imbullonata. Papà aveva indossato il berretto di lana e il pesante pastrano di pelle di montone che mamma gli aveva confezionato anni addietro come regalo di Natale, poi si era messo attorno alla spalla la corda avvolta. Il bambino aveva mangiucchiato distrattamente da una scodella di brodo di carne, sapendo che stavano sussurrando in modo che lui non li sentisse. Ma sapeva che, se avesse ascoltato, non avrebbe comunque voluto conoscere per davvero quello che si stavano dicendo. Non è giusto! si disse mentre intingeva le dita nel brodo e pescava un boccone di carne. Se devo essere il capo della casa, non dovrei conoscere anche i segreti?

Dall'altra estremità della stanza la voce di mamma si era improvvisamente alzata senza più controllo. Lascia che lo facciano gli altri! Ti prego. Ma papà le aveva preso il mento, tenendole alto il viso e guardandola con tenerezza in quegli occhi grigi come il mattino. Devo farlo, aveva detto, e lei sembrava volesse piangere e non potesse. Aveva esaurito tutte le lacrime la notte prima, sdraiata sul letto nell'altra stanza. Il bambino l'aveva sentita per tutta la notte. Era come se le pesanti ore del buio le stessero spezzando il cuore e non ci sarebbero mai state ore di luce sufficienti a rincollarne i pezzi. No, no, no, mamma stava ora ripetendo, ancora e ancora, come se quella parola avesse qualcosa di magico capace di impedire a papà di uscire fuori alla luce del giorno nevoso, come se quella parola avesse potuto sigillare la porta, legno contro pietra, per poter chiudere lui dentro e i segreti fuori.

E, quando lei aveva fatto silenzio, papà aveva preso la doppietta dalla rastrelliera accanto alla porta. Aveva aperto l'arma e caricato con cartucce a pallettoni entrambe le camere, rimettendola giù con attenzione. Poi aveva tenuto stretta la mamma e l'aveva baciata e le aveva detto: Ti amo. E lei gli si era attaccata come una seconda pelle. E a quel punto lo zio Joseph aveva bussato alla porta e chiamato: Emil! Siamo pronti a partire!

Papà l'aveva abbracciata ancora per un attimo, poi aveva afferrato il fucile che aveva comprato a Budapest e aveva aperto la serratura della porta. Si era fermato sulla soglia e i fiocchi di neve gli volteggiavano intorno. André! aveva detto, e il bambino aveva alzato lo sguardo. Prenditi cura di tua madre e assicurati che questa porta rimanga ben sprangata. Capito?

Sì, papà.

Sull'uscio, stagliato sullo sfondo del cielo pallido e dei denti violacei delle lontane catene montuose, papà aveva rivolto lo sguardo verso la moglie e aveva pronunciato cinque parole a voce bassa. Erano poco chiare, ma il bambino le aveva percepite, con il cuore che gli batteva in un oscuro disagio.

Papà aveva detto: Fa' attenzione alla mia ombra.

Quando si fu allontanato, il sibilo del vento di novembre riempì lo spazio che aveva occupato. Mamma si fermò sulla soglia, con la neve che fioccava sui suoi lunghi capelli, invecchiandola ogni momento di più. Teneva gli occhi fissi sul carro mentre i due uomini incitavano i cavalli lungo il sentiero lastricato che li avrebbe portati a raggiungere gli altri. Rimase ferma lì per molto tempo, quasi a sfidare la falsa, bianca purezza del mondo oltre quella porta. Quando il carro sparì alla vista, si girò, chiuse la porta e la sprangò. Poi rivolse lo sguardo verso il figlio e disse con un sorriso che sembrava più una smorfia: Fa' i compiti, adesso.

Erano tre giorni che era via. Ora i demoni ridevano e danzavano nel fuoco e qualcosa di orribile, intangibile era penetrato nella casa per piazzarsi nella sedia vuota davanti al camino, per sedere tra il bambino e la donna durante i loro pasti serali, per andar loro dietro come una folata di cenere nera sollevata da un vento errante.

Gli angoli delle due stanze della casa divennero progressivamente freddi via via che il ciocco di legno si consumava lentamente, e il bambino poteva vedere un flebile fantasma di nebbia esalare volteggiando dalle narici della madre ogni volta che lei espirava.

«Prendo l'accetta e vado a fare altra legna», disse il bambino, facendo per alzarsi dalla sedia.

«No!», gridò la madre immediatamente, e alzò la testa. I loro sguardi s'incontrarono e i loro occhi grigi rimasero a fissarsi per qualche secondo. «Quella che abbiamo è sufficiente per la notte. Adesso è troppo buio di fuori. Puoi aspettare fino alle prime luci».

«Ma quella che abbiamo non è abbastanza...».

«Ti ho detto di aspettare fino al mattino!». Distolse lo sguardo quasi subito, come se si vergognasse. I ferri da maglia luccicavano alla luce del fuoco mentre lavorava lentamente a un maglione per il bambino. Quando lui si sedette di nuovo, vide il fucile da caccia nell'angolo lontano della stanza. Emanava un'opaca luce rossastra per il riflesso del fuoco, come un occhio vigile nell'oscurità. E adesso nel camino la fiamma si alzò, mulinò e si frantumò; la cenere si agitò in un vortice su per la cappa e fuori. Il bambino stette a guardare; il calore gli striava gli zigomi e la base del naso, mentre la madre si dondolava nella sedia dietro di lui, gettando ogni tanto un'occhiata al profilo aguzzo del figlio.

In quel fuoco il bambino vedeva delle immagini comporsi, disegnando un murale vivente: vide un carro nero tirato da due cavalli bianchi con pennacchi da funerale, il freddo respiro che usciva in nuvolette. Dentro quel carro una semplice, piccola bara. Altre persone seguivano il carro, con gli stivali che scricchiolavano sulla crosta di neve. Suoni borbottati. Segreti stratificati sulle facce. Occhi socchiusi, spauriti che fissavano le pendici grigio-viola dei Monti Jaeger. Il ragazzo dei Griska giaceva nella bara, e ciò che rimaneva di lui veniva ora trasportato in processione al cimitero dove il lelkész aspettava.

La morte. Al bambino era sempre sembrata così fredda, estranea e distante, qualcosa che non apparteneva a questo mondo, non al mondo di mamma e papà, ma a quello in cui aveva vissuto nonna Elsa quando era ammalata e aveva un colorito giallastro. Papà aveva usato allora quella parola: Sta morendo. Quando sei nella camera con lei, devi stare molto buono, perché non può più cantare per te e ora vuole solo dormire.

Per il bambino la morte era un tempo in cui non c'erano più canzoni e potevi essere felice solo quando avevi chiuso gli occhi. Ora stette a fissare il carro funebre dei suoi ricordi fino a quando il ciocco si sgretolò e le lingue di fiamma si sparpagliarono altrove. Ricordava di aver sentito dei bisbigli tra gli abitanti di Krajeck vestiti di nero: Una cosa terribile. Aveva solo otto anni. Adesso sta con Dio.

Dio? Speriamo, e preghiamo che sia davvero Dio quello con cui ora sta Ivon Griska.

Il bambino ricordava. Aveva visto la bara calata giù con corda e carrucola nell'oscuro riquadro scavato nel terreno, mentre il lelkész intonava benedizioni e agitava il crocifisso. La bara era stata chiusa con i chiodi e poi avvolta col filo spinato. Prima che si cominciasse a ricoprirla con badilate di terra, il lelkész si era fatto il segno della croce e aveva lasciato cadere il crocifisso all'interno della tomba. Questo era stato una settimana addietro, prima che la vedova Janos scomparisse; prima che la famiglia Sandor svanisse nella notte nevosa della domenica, abbandonando tutto ciò che possedeva; prima che Johann l'eremita riferisse di aver visto delle figure nude ballare sulle alture spazzate dal vento dei Monti Jaeger e correre assieme ai grandi lupi della foresta che infestavano quella montagna stregata. Subito dopo che Johann era sparito anche lui assieme al suo cane, Vida. Il bambino ricordava l'inusuale durezza sul viso di suo padre, il fremito di qualche oscuro segreto nei suoi occhi. Una volta aveva sentito papà dire a mamma: Sono di nuovo in movimento.

Nel caminetto la legna si muoveva e gemeva. Il bambino strizzò gli occhi e si fece indietro. Alle sue spalle i ferri da maglia della madre erano immobili; la testa di lei era drizzata verso la porta e stava ad ascoltare. Il vento ruggiva, portando il ghiaccio giù dalla montagna. Si sarebbe dovuto far forza per aprire la porta il mattino successivo, e la crosta di ghiaccio si sarebbe frantumata come vetro.

Papà ormai dovrebbe essere a casa, si disse il bambino. Fa così freddo là fuori stanotte, così freddo... Di sicuro papà non tarderà molto. Sembravano esserci dei segreti dovunque. Appena la notte prima qualcuno era penetrato nel cimitero di Krajeck e aveva aperto, scavando, dodici tombe, compresa quella di Ivon Griska. Le bare erano sparite, ma girava voce che il lelkész avesse trovato ossa e teschi sparsi nella neve.

Qualcosa batté forte alla porta, un rumore come quello di un martello che percuote un'incudine. Una volta. E poi di nuovo. La donna sobbalzò sulla sedia e si girò.

«Papà», gridò con gioia il bambino. Quando si alzò, le forti strinature di calore sul viso furono dimenticate. Si diresse verso la porta, ma la madre lo afferrò per la spalla.

«Zitto!», sussurrò, e insieme aspettarono, con le Altri colpi alla porta ~ un suono sordo, pesante. Il vento urlava, e sembrava il lamento della mamma di Ivon Griska quando la bara sigillata era stata calata nel terreno ghiacciato.

«Apri la porta!», disse papà. «Sbrigati! Ho freddo!».

«Grazie a Dio!», gridò la mamma. «Oh, grazie a Dio!». Si diresse rapida alla porta, tirò via la sbarra e la spalancò. Un torrente di neve le frustò il viso, il vento le deformò gli occhi, il naso e la bocca. Papà, una forma indistinta con il cappello e il pastrano, si fece avanti alla debole luce del focolare e diamanti di ghiaccio gli scintillavano nelle sopracciglia e nella barba. Prese la mamma fra le braccia, il corpo massiccio che quasi la avvolgeva. Il bambino si fece avanti per abbracciare il padre, grato che fosse tornato perché essere l'uomo di casa era molto più difficile di quanto avesse immaginato. Papà si avvicinò, passò una mano fra i capelli del bambino e gli diede una vigorosa pacca sulla spalla.

«Grazie a Dio sei a casa!», disse mamma, stringendosi a lui. «È finita, vero?».

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