Una stanza chiusa a chiave di Yukio Mishima.
Kazuo, giovane impiegato del Ministero delle Finanze nel derelitto Giappone del dopo Seconda Guerra Mondiale, intreccia una relazione con Kiriko, una donna sposata con una figlia di nove anni, Fusako.
Quando Kiriko muore per un attacco cardiaco, Kazuo inizia a frequentare la sua casa, popolata apparentemente solo dalla piccola Fusako e da una silenziosa, connivente governante. L’attrazione per la bambina comincia a farsi sempre più morbosa.
L’immagine che reiteratamente traspare, appare, si incarna dalle righe di questo breve capolavoro che Mishima scrisse in giovanissima età è quella della lacerazione, figurata e non. E’ innanzitutto lacerato il Giappone che Mishima mirabilmente fa rivivere, appena uscito da una guerra disastrosamente persa, ancora occupato da truppe americane che ne limitano la sovranità, ancora a metà strada tra il nostalgico sogno imperial-nazionalista e la sudditanza culturale e politica nei confronti dei vincitori. Sono lacerati i personaggi che si muovono sullo sfondo della vicenda: impiegati vergini chiusi in ufficio notte e giorno, donne malate che si offrono in balere di periferia, politici che rincorrono depressi e sfiduciati un’inflazione galoppante.
Lacerato l’Io, l’identità del protagonista, continuamente e dolorosamente sospeso tra un integerrimo affetto paterno nei confronti della bizzarra bambina Fusako e la voglia irresistibile di violarne le carni indifese con brutalità. E’ questo dolore che Mishima rappresenta, lo stesso dolore che si fa sogno nelle notti di Kazuo con immagini e simbolismi che ricordano in modo impressionante (precorrendolo) lo stile visionario del regista cinematografico David Lynch. Ispirato ad un periodo di lavoro presso il Ministero delle finanze dello stesso Mishima,
Una stanza chiusa a chiave è un meccanismo perfetto, una piccola ma letale macchina di tortura, una sorta di originalissimo mix tra Sade, il Neorealismo e il già citato Lynch che troppo spesso non è citato tra le opere essenziali del geniale scrittore giapponese, un posto d’onore che invece meriterebbe anche solo per il bruciante, disperante, angosciante finale.
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