Home » , , » Figli di Nessuno è un libro struggente nel quale Torey Hayden ci mette di fronte all'orrenda realtà dei bambini maltrattati.

Oggi voglio presentarvi un libro un po’ diverso dal solito. In realtà vorrei presentarvi un’autrice un po’ diversa da tutte le altre, ma h...

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Oggi voglio presentarvi un libro un po’ diverso dal solito. In realtà vorrei presentarvi un’autrice un po’ diversa da tutte le altre, ma ho iniziato questo blog con l’intento di presentare libri e sarò coerente con me stessa scegliendo una delle sue opere in rappresentanza delle altre. Non che poi non possa tornare a presentarvi le altre, ma vorrei prima fare un giro di prova con autori diversi per dare spazio a tutti quelli che sono entrati nella mia vita, una specie di par condicio per intenderci!

Il libro che vi presenterò è Figli di nessuno, di Torey Hayden.

Un bambino di sette anni che non sa parlare se non per ripetere le previsioni del tempo e le parole degli altri, un'incantevole bambina di sette anni che non sa nè leggere nè scrivere a causa di un trauma cranico causatole dal padre, un violento bambino di dieci anni che ha visto la matrigna uccidere suo padre e suo fratello e che passa da una famiglia all'altra, una timidissima dodicenne espulsa dalla scuola perché incinta... Nessuno, se non la maestra dei miracoli, aveva voluto occuparsi di loro. Nessuno aveva cercato di capirli e di aiutarli ad affrontare la vita. Un libro struggente nel quale Torey Hayden intende mettere di fronte all'orrenda realtà dei bambini maltrattati.)

So che ho detto che non sono qui per presentare l’autrice, ma un’introduzione in questo caso è d’obbligo: Torey Hayden è una psicologa infantile e insegnante di sostegno americana, oltre ad aver svolto numerose altre attività nel campo dell’educazione. In gran parte dei suoi libri Torey Hayden racconta proprio le sue esperienze personali di assistenza a scuola a bambini con diversi tipi di problemi, che gli sono valse il soprannome di “maestra dei miracoli”.

Figli di nessuno è una delle tante storie reali che Torey ci racconta. Non so se la mia è solo deformazione professionale, ma trovo questi libri di una bellezza unica, data non solo dall’abilità di scrittrice di romanzi che l’autrice ha più volte dimostrato, ma anche da quello che ritengo un nobile intento, ovvero far conoscere questi bambini a tutti, aiutare a comprenderli e a non additarli come “ingestibili”, perché tutti hanno una storia, tutti si portano qualcosa dentro, nessun bambino nasce per essere un problema.

Torniamo quindi ai Figli di nessuno e alla sua trama:

“Prendete quattro bambini di età diversa e con delle storie diverse e con problemi molto diversi. Metteteli in un’unica classe con un’insegnante che arriva a prendersi cura profondamente di ognuno di loro. Essenzialmente questo è ciò che è successo quando l’insegnante speciale Torey Hayden prese in mano “la classe che si creò da sola”. Per primo arrivò Boo, un bambino di sette anni gravemente autistico. Poi arrivò Lori, anche lei di sette anni, vittima di traumi cerebrali come risultato di abusi fisici. Quindi arrivò Tomaso, dieci anni, che si era occupato di altre persone e questo lo aveva ferito così tanto che era deciso a ferire gli altri e a far sì che lo odiassero. Infine arrivò Claudia, la ragazzina dodicenne dell’alta borghesia, brillante e capace che aveva dovuto lasciare la sua scuola privata cattolica quando si era scoperto che era incinta. Questo è il racconto dell’orrenda realtà dei bambini maltrattati, ma anche delle straordinarie possibilità di recupero che la psicologia, la sensibilità e l’amore possono aprire.”

A coloro che decideranno di conoscere i Figli di nessuno, invito anche a consultare il sito internet dell’autrice (il cui link, come sempre, potrete trovare a fine articolo), in cui vengono riportate anche le notizie su come questi bambini, ormai adulti, vivono oggi.

Se anche una sola persona deciderà di capire e leggerà questo o un altro dei libri di Torey Hayden saprò che il tempo speso a creare questo blog non sarà stato sprecato.

TRAMA

La classe si creò da sé.

C'è una vecchia legge della fisica che parla dell'orrore che la Natura ha per il vuoto. Quell'autunno, a quanto pare, la Natura era entrata in azione. Doveva esserci un vuoto che non avevamo notato, perché d'un tratto, senza che nessuno avesse programmato nulla, cominciò a formarsi una classe. Il vuoto non si colmò di colpo, come a volte succede, ma lentamente, come avviene ogni volta che la Natura crea qualcosa di grande.

In agosto, all'inizio dell'anno scolastico, lavoravo come insegnante di sostegno in una scuola elementare. I bambini con maggiori difficoltà di apprendimento lasciavano la loro classe per mezz'ora al giorno e venivano da me, da soli o in gruppetti di due o tre. Il mio compito era quello di tenerli il più possibile al passo con la loro classe, soprattutto nella lettura e in matematica, ma qualche volta anche in altre materie. Una classe mia, però, non ce l'avevo.

Lavoravo in quel distretto scolastico da sei anni, quattro dei quali li avevo dedicati all'insegnamento in una classe chiusa, come la chiamavano gli educatori: un corso che si svolgeva in un'unica aula, dove i bambini non potevano interagire con gli altri alunni della scuola. Allora insegnavo ai bambini con gravi problemi di instabilità emotiva. Poi era arrivata la Legge 94- 142, nota come legge d’integrazione, che si prefiggeva di inserire gli alunni della scuola speciale in un ambiente che fosse il meno chiuso possibile e di ridurre al massimo le loro lacune con lezioni supplementari, i corsi di sostegno. Le classi chiuse, dove i bambini speciali erano tenuti a distanza da quelli normali, sarebbero sparite. E così sparivano le classificazioni. Che bella legge. Che begli ideali. E intanto, i miei bambini e io eravamo intrappolati nella realtà.

Quando la legge fu approvata, il mio corso chiuso venne smantellato. I miei undici alunni, insieme ad altri quaranta handicappati gravi del distretto, vennero integrati nelle classi normali. Rimase aperta una sola classe speciale a tempo pieno, quella per ritardati gravi, bambini che non camminavano, non parlavano, o non avevano il controllo delle funzioni fisiologiche.

Mi fu assegnato un corso di sostegno in una scuola dall'altra parte della città, la stessa alla quale aveva fatto capo la mia classe speciale. Questo era successo due anni prima. Forse avrei dovuto accorgermi del vuoto che si stava creando. Forse non avrei dovuto sorprendermi, quando vidi colmarsi quel vuoto.

Stavo scartando il mio pranzo, un Big Mac di MacDonald's, un vero e proprio banchetto, per me, dal momento che nella mezz'ora di intervallo per il pranzo non avevo certo il tempo di montare in macchina e attraversare tutta la città per prendere un hamburger, come facevo quando insegnavo alla vecchia scuola. Questo me l'aveva portato Bethany, una psicologa della scuola. Lei capiva la mia hamburger-dipendenza.

Stavo appunto estraendo il mio hamburger dal contenitore di polistirolo, facendo bene attenzione a non far uscire la valanga di lattuga, come sempre mi succedeva, e cercando, per l'ennesima volta, di ricordare quella canzoncina idiota che fa: <Due polpette di puro manzo...> Non pensavo al lavoro.

<Torey?>

Alzai gli occhi. Birk Jones, direttore distrettuale delle classi speciali, giganteggiava sopra di me, la pipa spenta che gli pendeva dalle labbra. Ero così concentrata sul mio hamburger che non l'avevo nemmeno sentito entrare nella sala insegnanti.

<Oh, salve, Birk.>

<Hai un minuto?>

<Sì, certo>, dissi, anche se in realtà non ce l'avevo. Mi era rimasto soltanto un quarto d'ora per trangugiare l'hamburger e le patatine, bere la mia Dr. Pepper e tornare alla pila di compiti ancora da correggere che mi aspettava in classe. La lattuga scivolò fuori dal Big Mac e mi cadde sulle dita.

Bethany spostò la sua sedia e Birk si sedette fra noi due.

<Ho un piccolo problema, e speravo che tu potessi aiutarmi a risolverlo>, mi disse.

<Ah sì? Che genere di problema?>

Si tolse la pipa di bocca e ne scrutò il fornello. <Sette anni, suppergiù.> Scoprì i denti. <È all'asilo di Marcy Cowen. Un maschietto. Autistico, credo. Sai com'è, piroette, giri vorticosi Parla da solo. Le stesse cose che facevano i tuoi bambini. Marcy non ce la fa più. L'ha avuto in classe anche l'anno scorso, per un po', e il bambino non è migliorato per niente, nemmeno con l'aiuto di un assistente qualificato. Dobbiamo cambiare tecnica, con lui.>

Continuai a masticare assorta il mio hamburger. <E che cosa potrei fare, io, per aiutarti?>

<Be'...> Lunga pausa. Mi guardava tanto intensamente, mentre mangiavo, che pensai di dovergli forse offrire un po' del mio hamburger. <Be', Tor, ho pensato che... forse potremmo farlo venire qui.>

<Che vuoi dire?>

<Potresti occupartene tu.>

<Io, occuparmi di lui?> Una patatina mi si bloccò in gola.

<In questo momento non sono attrezzata per occuparmi di bambini autistici, Birk.>

Lui arricciò il naso e si chinò verso di me, con aria confidenziale. <Tu potresti farcela. Non credi?> Fece una pausa, per vedere se rispondevo o morivo soffocata dalla mia patatina. <Verrebbe soltanto per mezza giornata. All'asilo segue le classi regolari. E nella classe di Marcy non combina niente. Pensavo che forse potresti fargli delle lezioni speciali. Come facevi con gli altri ragazzini che avevi.>

<Ma, Birk... Io non ho più quella classe. Adesso insegno materie di studio. E i bambini del mio gruppo di sostegno?>

Scrollò le spalle affabilmente. <In qualche modo li sistemeremo.>

Il ragazzino sarebbe arrivato ogni giorno alle 12,40. Fino alle due, dandosi il cambio, ci sarebbero stati anche gli altri bambini in classe, ma poi saremmo stati soli, lui e io, con metà della giornata scolastica davanti a noi. L'idea di Birk era che se anche avesse distrutto la mia aula, durante le ore di sostegno con gli altri bambini, non sarebbe stato poi tanto peggio che se avesse distrutto l'asilo di Marcy Cowen. Avendo lavorato per anni nei corsi chiusi, io possedevo quella cosa misteriosa che Birk chiamava esperienza. Tradotto, significava semplicemente che nulla poteva più turbarmi.

Preparai la stanza per l'arrivo del ragazzino. Misi al riparo gli oggetti fragili, ficcai in un ripostiglio tutti i giochi fatti di pezzi piccoli, che avrebbe potuto ingoiare, e spostai i banchi e i tavoli per poter avere con lui un contatto più intimo di quanto di solito dovevo avere con i miei alunni dei corsi di sostegno.
Terminato il lavoro, indietreggiai di un passo per valutare l'opera, e mi si allargò il cuore. Insegnare nei corsi di sostegno non era particolarmente gratificante. La classe chiusa mi mancava. Avrei voluto avere ancora una classe mia, con i miei bambini. Ma soprattutto, mi mancava quella gioia misteriosa che sempre mi dava lavorare con i bambini emotivamente instabili.

Il lunedì della terza settimana di settembre conobbi Boothe Birney Franklin. Sua madre lo chiamava Boothe Birney anche quando si rivolgeva a lui. La sorellina, di tre anni, arrivava soltanto a pronunciare Boo. Pensai che questo poteva bastare anche a me.

Boo aveva sette anni. Era un bambino magico, come spesso mi parevano magici i miei bambini. Nella sua espressione c'era la stessa ingannevole concretezza dei sogni. Figlio di una coppia mista, aveva la pelle color té al latte. I capelli erano una massa enorme di morbidi riccioloni quasi neri. Gli occhi erano verdi, un verde fosco e misterioso, un verde mare, delicato e cangiante. Sembrava uscito da un libro illustrato di Tasha Tudor. Non era molto cresciuto, per avere sette anni. Gliene avrei dati cinque, forse, non di più.

La madre lo spinse in classe, mi disse qualche parola e se ne andò. Boo, adesso, apparteneva a me.

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