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Come è noto, il New England è quella regione degli Stati Uniti situata nella parte nord-orientale del paese dove i Padri Pellegrini dall&#...

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Come è noto, il New England è quella regione degli Stati Uniti situata nella parte nord-orientale del paese dove i Padri Pellegrini dall'Inghilterra sbarcarono nel 1620, fondando la prima grande comunità puritana nel Nuovo Mondo. La regione, al confine con l'Atlantico, comprende gli stati del Maine, del New Hampshire, del Massachusetts, del Vermont, del Connecticut e del Rhode Island. E anche dopo queste poche righe, il normale consumatore americano di horror si sentirebbe a casa: il Maine di King, Nathaniel Hawthorne e Edgar Allan Poe del Massachusetts, Lovecraft del Rhode Island... Ma, dopo essersi presi la briga di leggere i classici, Lincoln Child è nato nel Connecticut, Christopher Golden di nuovo nel Massachusetts, l'ignoto (per noi) F. Brett Cox viene dal Vermont, e persino Dan Brown, che non ha nulla a che fare con l'horror, ma trasuda gotico, è nato nel New Hampshire.

Non si tratta di banali registri statistici, ma piuttosto del fatto che il marcio 'cuore' del gotico americano, dove le fiamme dell'Inferno ardono eternamente e Dio non si rivela mai giusto e misericordioso, ma sempre spietato vendicatore, è nato, è cambiato e vive ancora (c'è una grandissima Horror Writers Association nel New England). È il puritanesimo fondante, caratterizzato dall'estrema ortodossia del New England primitivo, che ha dovuto fare i conti, non del tutto risolvendoli, con la paranoia stregonesca del XVII secolo, immortalata in letteratura da Nathaniel Hawthorne e Arthur Miller con La lettera scarlatta e Il crogiolo.

Per chi va al cinema, ci sono alcuni film tratti dal primo, uno firmato da Wim Wenders e l'ultimo distribuito da Roland Joffé, mentre dal testo di Miller La seduzione del male è stato tratto The Crucible di Nicholas Hytner. E questo riferimento cinematografico non è casuale, perché l'estetica del New England, che coincide sempre con la sostanza, passa anche da qui: da quelle comunità chiuse, con donne e uomini vestiti di nero nelle tipiche uniformi dei pellegrini, dove la colpa e il peccato, sempre citati come spauracchi, fanno apparire i vittoriani dell'Inghilterra ottocentesca come progressisti di sinistra, e dove il Diavolo e il Male, non a caso in maiuscolo, amano mettersi in mostra di più perché sempre chiamati in causa. C'è una linea 'gotica' ideale che passa tra ieri e oggi, da film come The Dark Secret of Harvest Home di Leo Penn, Who Is the Other One? di Robert Mulligan, Deadly Blessing di Wes Craven, The Gift di Sam Raimi, senza dimenticare le ricadute quasi sempre sfortunate dei vari Children of the Corn di King e il relativamente recente The Village di M. Night Shyamalan. The Village di Night Shyamalan: parla sempre dell'anima più vera e tormentata del New England gotico, dove diversità e modernità sono marchiate come 'stregoneria' e gli intrusi incontrano una brutta fine. Lo stesso spirito che anima The Dark Way di Robert McCammon.

McCammon, però, va oltre. Perché i suoi personaggi possano interagire in questo grande teatro di passioni e pulsioni che è The Dark Way, lo scrittore ha bisogno di un luogo autenticamente conservatore, dove il diffuso senso di intolleranza sociale possa esprimersi al massimo dell'odio nella sua uniforme razzista. Il New England su questo fronte non può storicamente essergli di alcun aiuto, né potrebbe funzionare in modo credibile, avendo avuto un ruolo chiave nell'abolizione della schiavitù durante il XIX secolo. Meglio sotto questo aspetto, anche perché McCammon ci è nato e lo conosce bene, è l'Alabama conservatrice e isolazionista dei decenni in cui è ambientata la storia corale raccontata in The Dark Way (gli anni Cinquanta, Sessanta e primi Settanta). Quell'Alabama dove è nato il Ku Klux Klan e dove i neri hanno ancora i loro troppi problemi. Una regione dove perfino un prete bianco, moderatamente progressista, può capitare di essere cosparso di pece e piume, perché di lui si dice che "non dis-de-gna la figa dei negri".

Il retroscena è definito. E, a questo punto, il prefetto non deve commettere il peccato mortale di raccontarvi il libro. Ma tentare, per quanto possibile, di tracciare le linee di un efficace cinematografo di prossima uscita. Diciamo che, come quasi sempre con McCammon, alla terza riga siamo subito 'in medias res', piacevolmente impantanati in quell'humus puritano dove l'e-redenzione del New England e la colpa della tragedia di Salem sono mediate da quei tanti 'divieti', il cui tòpos più efficace è il 'luogo oscuro e proibito dove non si deve andare', con tutte le metafore che si possono proporre al riguardo. Una regione - un'America - dove il fanatismo religioso può uccidere per overdose e dove un arcaico conflitto 'fondativo' ribalta di 360° i parametri del Bene e del Male: è quell'America che teme e odia tutto ciò che non capisce e che non si omologa a un'idea 'superiore' di conformismo sociale. Donne, neri, ragazzi 'fuori dal coro': tutti nemici in questa società arcaica e quasi tribale, dove trovano posto le idee tipiche del puritanesimo di matrice gesuitica (ancora ben presenti in certa religiosità di base e 'popolare'), per cui il malessere entra nel corpo solo in seguito al 'peccato commesso', e dove il senso di colpa incorporato nell'anima prende il sopravvento come dubbio eterno e lacerante.

In questa palude, che più gotica non si potrebbe, si raccolgono echi familiari e si pagano gettoni culturali in quel grande e piacevole gioco di rimandi che è l'horror contemporaneo. Guardate voi stessi se vi vengono in mente altri autori, film o correnti... Il Male che è una creatura mutaforma e assume tutti gli aspetti che vuole ('... che non si arrende mai e si adatta ai cambiamenti del tempo'), cioè vampirizza le forme, ma la sua sostanza tipica è un colore, il nero. I poteri sovrannaturali sono distribuiti (da chi?) per predestinazione, senza possibilità di libero arbitrio. Il 'dono' (il Dono) che ti sceglie e spesso, soprattutto per le sue negative ricadute sociali, è tutto fuorché un dono. Da qui l'estrema solitudine di chi ha ed esprime poteri extrasensoriali: Billy, uno dei giovani protagonisti, possiede - come il celebre bambino del film di Shyamalan - il Sesto Senso e può vedere i morti, soprattutto quelli inquieti. E può aiutarli a ritrovare la retta via. Ma tutto questo si rivela per lui una condanna a vivere border-line, al confine tra la vita e la morte. E la 'piccola città' che non si può non visitare si chiama, guarda caso, Hawthorne. E l'antico folklore dei pellerossa, in cui si trova un Dio universale che si rivolge a tutti, bianchi e neri. E la buona, antica 'stregoneria', che usa abilmente le erbe per curare i mali del corpo. E, ancora, la maledizione sulla strada in cui l'ira di un fantasma della strada provoca incidenti stradali a catena.

Ma non finisce qui. Perché ci imbattiamo anche in una casa della maledizione molto bella, la 'Booker house' che incombe su Hawthorne come quella di Micha-el Myers in Haddonfield. Abbiamo il tema ultra-classico, soprattutto al cinema, del ballo di fine anno, il ballo che in American Gothic è diventato, da trent'anni, il momento prescelto per lo scatenamento delle forze del Male. Aggiungiamo il luna park malinconico itinerante, la casa dei divertimenti che ci riporta a Bradbury e Tobe Hooper, con il suo carico di freak, Mr Dark, spettacoli 'finti' con fantasmi 'veri', Doctor Mirakle, circhi degli orrori e giostre infestate. Da Pennywise a Carnivale a Taken di Steven Spielberg, è un territorio vasto e fantasioso da cui molti scrittori horror non hanno alcuna intenzione di liberarsi. Qua e là un'atmosfera da Grindhouse. Sessualità, un pizzico di tabacco da fiuto, un "doppio" invisibile... Manca ancora qualcosa? Sì.

Leggendolo nel 2008, The Dark Way risuona di echi kingiani e lan-sdaliani. Vengono in mente Children of the Corn, The Dead Zone e persino Pet Sematary (Toby, il cane che torna vivo dopo essere stato investito da un camion, sembra la versione canina di Church il gatto), adolescenti con poteri paranormali e genitori degli stessi (il pio reverendo Falconer è l'alterità maschile della madre di Carrie White), e ancora bambini che lottano contro l'oscurantismo razzista come In the bottom of the swamp di Big-de Joe.

Ma, badate bene, The Dark Way è stato scritto nei primi anni Ottanta, e tra i tanti ingredienti del piatto esprime una funzione sociale, denunciatrice dell'orrore che ci giunge da tempi lontani. Alla gogna, ancora attuale, il fanatismo religioso dei predicatori televisivi, molto più interessati al business che alla salvezza delle anime pie che li ascoltano; quelli che invocano sempre Satana come spauracchio sociale e magari lo usano in segreto; quelli per i quali, naturalmente, il rock è la musica del diavolo; quelli che, autoproclamatisi "crociati del bene", bruciano libri e dischi in piazza (come nazisti di memoria non del tutto sepolta e certe frange islamiche); quelli per i quali i Beatles dai capelli lunghi, i Cream, Sam the Sham e i Pharaohs (Wooly Bully!) sono tutti mafiosi che producono "musica peccaminosa da drogati"; quelli che rappresentano una maggioranza non tanto silenziosa e indubbiamente armata; coloro che, in quanto folli telepredicatori e grandi manipolatori di massa, sono alla fine i veri agenti del Male.

A questo punto, taccio diligentemente sul libro. Accennerò, se possibile, a qualcosa su McCammon che non è stato ancora detto. A due grandi che hanno segnato come pochi altri la storia dell'editoria noir e thriller in Italia, Laura Grimaldi e Marco Tropea, dobbiamo l'ingresso dell'autore de La Via Oscura nel nostro Paese. Era la fine degli anni Ottanta e la coppia milanese, appena dimessasi dalla Mondadori, aveva fondato una nuova casa editrice le cui scelte sarebbero state seminali per il futuro dei generi 'pop' orbitanti nel magma piacevolmente confuso del thriller. L'hard-boiled, il giallo, la fantascienza, il noir all'italiana, ma anche l'horror, tutti convergevano in un unico acronimo, Interno Giallo, per ricordare al mondo che abbiamo ancora a che fare con la letteratura 'di tensione'. Fu grazie a G&T che conoscemmo James Ellroy, Andrew Vachss, Jerome Charyn e (scusate se non basta) gli esordi di Giancarlo De Cataldo e Pino Ca-cucci. Per l'horror stricto sensu, puntarono su nomi sconosciuti e di classe straordinaria come KW Jeter, Jack Curtis, Stephen Gallagher e (eccoci qua) Robert McCammon. Un autore, come è stato scritto, originario dell'Alabama, beniamino di casa Gargoyle e amatissimo in Italia, che esordì con il suo decimo titolo, Mine. Se ricordarlo rende giustizia a Grimaldi e Tropea (che intitolò deliziosamente il libro in italiano Mary Terror, giocando sul nome e cognome della psicopatica protagonista Mary Terrell), balza agli occhi il paradosso selettivo - e angosciante per tanti altri scrittori anglosassoni - che le leggi del mercato impongono, almeno qui in Italia. Dove precisamente puoi essere tradotto e conosciuto al tuo decimo titolo. Interno Giallo non si è limitato a Mine e ha proposto nel '92 Boy's Life, una risposta straordinaria, intrisa di amore per il cinema e nostalgia, a Different Seasons di King, intitolata The Belly of the Lake. Era il secondo libro di McCammon in Italia, l'undicesimo in America (dove era stato pubblicato l'anno prima), a parte molti racconti sparsi qua e là in varie antologie.

Sebbene l'esperienza 'solista' di Interno Giallo sarebbe presto cessata, assorbita dalla Mondadori e trasformata in collana, il passaggio di McCammon in Italia era ormai consolidato. E, in evidente disordine cronologico, si susseguirono in rapida successione Baal (il suo titolo d'esordio), il fluviale e apocalittico Swan Song (Tenebre) e poi, via via diluiti, la fantascienza Stinger (L'invasione), l'action 'realista' Gone South (L'inferno nella palude) e Bethany's Sin (Loro attendono, titolo quanto mai paradigmatico, visto che fu pubblicato negli USA nel 1980 e in Italia nel '96). Poi il silenzio, un black-out che fu in realtà uno specchio perfetto della 'crisi di crescita' che colpì dall'altra parte.

Anche se l'esperienza «in solitario» di Interno Giallo cesaría pronto, assorbita da Mondadori e trasformata in serie, il passo di McCammon in Italia è stato per entonces bien asentado. Y, en evidente disordine cronologico, appaiono in estrecha successione i seguenti titoli: Baal (su titolo di debutto), el fluvial y apocalíptico Canto del Cisne (Tenebre) y luego, diluidos poco a poco, la ciencia-ficción Stinger (L'invasione ), la acción «realista» Gone South (L'inferno nella palude) e Bethany's Sin (Loro attendono, un título tan paradigmático como sempre, dado que se publicó en Estados Unidos en 1980 y en Italia en el 96). Dopo il silenzio, una pagina che in realtà era uno specchio perfetto della «crisi di crescita» che golpeaba all'altro lato.

Un bellissimo libro che trasmette ogni emozione, dal dolore alla felicità, ai piccoli progressi che questi bambini speciali raggiungono og...

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Un bellissimo libro che trasmette ogni emozione, dal dolore alla felicità, ai piccoli progressi che questi bambini speciali raggiungono ogni giorno.

Introduzione.

Torey, un insegnante che si dedicava alla cura dei bambini in situazioni speciali, torna nella sua città natale in attesa che un problema con la sua documentazione venga risolto e riceve un'offerta per riprendere quella professione dopo diversi anni di non pratica.

In questo libro basato su fatti realmente accaduti, la scrittrice riflette sul suo rapporto con ciascuno dei bambini con situazioni emotive e mentali delicate, su come cerca di aiutarli ad andare avanti con il suo insegnamento e con l'aiuto di un volontario che la sostiene, ma che Ha anche bisogno di molto aiuto con i suoi problemi emotivi.

Un romanzo tenero, con angoscia e incertezza che intrappola il lettore desiderandogli far sapere quale sarà il destino di questi bambini e che lo riempirà delle emozioni di cui Hayden ha impregnato le sue pagine.

Trama.

Quella classe era una vera Babele, non dissimile dal resto della mia vita. Era enorme, con un vecchio soffitto di inizio secolo alto più di tre metri e bellissime finestre che non davano su nulla che valesse la pena vedere: un muro di mattoni e la ciminiera della vicina centrale elettrica. Gran parte della stanza era stata riservata per ospitare la biblioteca del consiglio scolastico distrettuale, e scaffali di metallo grigio la dividevano dalla restante parte a forma di L che era mia. Lungo il braccio lungo dell'elle correvano finestre, dove erano sistemati anche il tavolo e le sedie, mentre il lato corto ospitava la lavagna e la porta d'ingresso. Lo spazio era sufficiente, ero abituato a meno, ma la disposizione era davvero strana: la lavagna non era visibile dalla zona di lavoro e, a meno che non fossi di sentinella nell'angolo dell'elle, non potevo tenere d'occhio la porta d'ingresso . Ancora più originale per me è stata la decisione del distretto di unire una classe di bambini disturbati con una biblioteca per il personale.

Il mio doveva essere il primo esperimento ufficiale all'interno del distretto scolastico - da quando la legge fu promulgata negli anni '70 - di una classe autogestita per bambini emotivamente disturbati. La definizione esatta del mio lavoro era “consulente per le risorse umane”, i bambini venivano descritti come “comportamentalmente disturbati” e, per chiudere il cerchio, la classe veniva chiamata “il centro”.

Ritornare in una scuola quella mattina di fine agosto dopo sei anni lontani dall'insegnamento aveva il sapore di un déjà vu: mi sentivo come se fossi stato lontano da sempre e, allo stesso tempo, come se non fossi mai andato via. Non volevo tornare a insegnare. Ero all'estero da due anni lavorando come scrittrice a tempo pieno e volevo tornare alla mia vita in Galles, al mio cottage, al mio cane e al mio ragazzo scozzese.

Motivi familiari mi avevano riportato a casa, e poi avevo dovuto affrontare le infinite difficoltà legate all’ottenimento di un permesso di soggiorno permanente in Gran Bretagna. I problemi sono venuti dal nulla: dai documenti bancari scomparsi ai consolati chiusi; mesi di attesa per uno si sono trasformati in tre e poi quattro e nessuna reale prospettiva che il permesso arrivasse effettivamente.

Infastidito e perplesso vagavo tra parenti e amici.

Un pomeriggio mi chiamò l'amico di un amico. Mi ha detto che non ci eravamo mai incontrati, ma aveva sentito parlare di me e del mio problema. Sembrava avere un problema tutto suo e si chiedeva se non potessimo aiutarci a vicenda. Uno dei suoi insegnanti della classe speciale si era improvvisamente ammalato gravemente, mancavano solo dieci giorni all'inizio del nuovo anno scolastico e non c'era tempo per assumere un sostituto ufficiale. Era interessata a trovare un supplente? La risposta immediata è stata un deciso no: stavo aspettando il visto e, se fosse arrivato, volevo essere pronto a partire subito. Ma la donna non era disposta a cedere facilmente; lei mi ha detto di pensarci, che se arrivavano le ferie potevo sempre dimettermi dall'incarico e loro avrebbero trovato il supplente. Quando tornai dopo aver accompagnato sua madre, la trovai esattamente dove l'avevo lasciata. Presi una sedia e gliela feci notare. Si sedette. Non c'era nulla di meccanico nei suoi movimenti, anzi si muoveva con una grazia sorprendente, ma sembrava essere completamente vuota. Per tutta la mattina si muoveva solo se glielo chiedevamo, altrimenti rimaneva pietrificata e fissava il vuoto davanti a sé senza muovere un muscolo.

Non guardava né me né i bambini, e anche quando le stavo di fronte continuava a guardare dritto davanti a sé, come se non fossi lì. Posso dire con certezza che non mi ha visto, ma non posso dire con la stessa certezza se si sia trattato di uno sforzo cosciente. Anche se mi avevano detto che Dirkie sarebbe stato il caso più difficile, quella mattina la situazione di Leslie mi sembrò molto più grave. Di noi tre, lei era l'unica incapace di parlare e di andare in bagno da sola.

Aveva problemi di diabete che richiedevano un'iniezione intorno a mezzogiorno. Quel giorno entrò l'infermiera, la portò in un angolo tranquillo e le fece l'iniezione senza che Leslie battesse ciglio. Non guardò nemmeno cosa le stava facendo la donna.

A mezzanotte e un quarto i bambini uscirono per pranzo e io rimasi al tavolo con le loro carte. Dato che li conoscevo già, ora potevo capire meglio cosa dicevano i loro profili.

Qualcuno bussò velocemente alla porta e la sentii aprirsi. Alzai lo sguardo, ma ancora una volta ero bloccato dagli scaffali e il fatto di non poter vedere l'ingresso dalla parte principale dell'aula mi rendeva nervoso. "Si accomodi." E aspettavo che entrasse qualcuno.

Come per gli ultimi sei libri, speravo di finire Like Another Boy il prima possibile in modo da poterli rivedere, ma mi ha colpito che con questo si sia andati oltre.

Una delle volte in cui ho visto l'immagine sull'ultima pagina dell'edizione dovevo mettere un divisore e vedere quante pagine mi mancavano, ho avuto una sensazione di vera ansia di sapere come andasse a finire.

Questo è quello che è successo con i libri precedenti, ma con questo ho pensato che fosse importante menzionarlo perché, se hai visto la mia lista dei libri da leggere per giugno, l'ho segnato nella categoria Riposo, perché è un libro che lascia ciò che Normalmente leggo (soprattutto fantasy) e passo a libri basati su eventi reali, che è qualcosa di molto diverso da quello a cui sono abituato, è un cambiamento radicale, ma sono felice di averlo fatto con Like a Child, perché mi ha lasciato un buon sapore in bocca.

Inizierò analizzando gli aspetti che mi portano a dare questa opinione con il fatto che sono stato attratto dal racconto mentre lo leggevo. Dico un po' perché quando stavo per iniziare a leggere i libri di questo mese mi scoraggiavo pensando che il primo fosse questo, anche se poi mi sono reso conto che era Dall'altra parte della porta di Gary L. Blackwood, a rendermi felice, ma (anche se mi è piaciuto di più Blackwood) dopo averlo finito penso ancora che sia stata una lettura divertente, quindi ha tutto questo.

Mi ha sorpreso che Hayden non abbia raccontato dettagliatamente ogni giorno di lezione, ma abbia piuttosto organizzato il racconto in modo tale che i punti salienti della personalità di ognuno (compresa quella dell'assistente) fossero ben evidenziati per il lettore e potessimo seguire il filo del discorso ognuno di loro a modo suo.

I personaggi erano ben descritti dal punto di vista emotivo, anche se in tutto il libro è stato difficile per me sapere con certezza chi fossero alcuni studenti, e non erano molti, ma immagino sia accettabile perché è comune che ciò accada a me con qualsiasi libro, quindi potrebbe essere un problema mio e non tanto della narrazione, ma se è capitato anche a voi vorrei che lo metteste nei commenti :)

Seguendo l'idea dei personaggi, mi è piaciuto che ci fosse un po' di antagonismo da parte di alcuni di loro, che ci fossero degli atteggiamenti sbagliati da parte loro, il che dava un tocco interessante alla storia, che non si rovina per chi , come me, pensavo che un libro fosse noioso o noioso prima ancora di averlo letto perché avevo molto presente l'aspetto “emotivo”, perché questo non è il caso di Like Another Boy.

Certo, ha alcuni momenti di questo tipo, ma la trama si sviluppa maggiormente verso i problemi che hanno ciascuno degli studenti e l'assistente, arrivando di tanto in tanto al sentimentale ma senza essere il centro del libro.

Passando ad un altro aspetto positivo, in generale la storia scivola velocemente e, come se avesse un certo tocco di intrigo, invita il lettore a proseguire la lettura fino a finirla, come dicevo all'inizio di questa recensione.

A proposito di rifinitura, il finale è stato molto improvviso, almeno per me, perché mancavano ancora alcune pagine e il fatto che finisse così mi ha sorpreso molto, anche se in effetti è un gran bel finale (lo immaginavo come il finale di un film e nella mia immaginazione sembrava molto bello XD) e ha anche un epilogo, quindi mi ha lasciato moderatamente soddisfatto.

E con moderatamente intendo il primo aspetto negativo di cui parlerò in questa recensione: la conclusione dei personaggi. In realtà non è poi così negativo, semplicemente non era quello che mi aspettavo, dato che non era un finale “vissero felici e contenti”, o almeno non per tutti, ma in realtà è qualcosa anche di positivo, parte dell'esperienza di avere un libro basato su fatti reali, che non sempre hanno il lieto fine ;-;

Un altro aspetto negativo che ho notato necessita di un leggero spoiler per essere raccontato, quindi se preferite non saperlo per non rovinare questa “sorpresa” che c'è nella storia, passate al paragrafo successivo :). Ora se arriva lo spoiler, dal momento che una delle mamme dei bambini diventa l'aiutante di Torey, avendo sua figlia in classe, cosa che non si noterebbe se non fosse stata spiegata perché lei non ha in realtà un rapporto materno, lei si affeziona più ad un'altra studentessa che a lei, aspetto che se mi ha lasciato un po' perplesso è che questo legame non è stato sviluppato, ma immagino.
Aveva problemi di diabete che richiedevano un'iniezione intorno a mezzogiorno. Quel giorno entrò l'infermiera, la portò in un angolo tranquillo e le fece l'iniezione senza che Leslie battesse ciglio. Non guardò nemmeno cosa le stava facendo la donna.

A mezzanotte e un quarto i bambini uscirono per pranzo e io rimasi al tavolo con le loro carte. Dato che li conoscevo già, ora potevo capire meglio cosa dicevano i loro profili.

Qualcuno bussò velocemente alla porta e la sentii aprirsi. Alzai lo sguardo, ma ancora una volta ero bloccato dagli scaffali e il fatto di non poter vedere l'ingresso dalla parte principale dell'aula mi rendeva nervoso. "Si accomodi." E aspettavo che entrasse qualcuno.

Opinione

Come per gli ultimi sei libri, speravo di finire Like Another Boy il prima possibile in modo da poterlo recensire, ma mi ha colpito che con questo si sia andati oltre.


Una delle volte in cui ho visto l'immagine sull'ultima pagina dell'edizione in cui dovevo mettere un divisore e vedere quante pagine mi erano rimaste, ho avuto una sensazione di vera ansia di sapere come andava a finire.

Questo è quello che è successo con i libri precedenti, ma con questo ho pensato che fosse importante menzionarlo perché, se hai visto la mia lista dei libri da leggere per giugno, l'ho segnato nella categoria Riposo, perché è un libro che lascia ciò che Normalmente leggo (soprattutto fantasy) e passo a libri basati su eventi reali, che è qualcosa di molto diverso da quello a cui sono abituato, è un cambiamento radicale, ma sono felice di averlo fatto con Like a Child, perché mi ha lasciato un buon sapore in bocca.

Inizierò analizzando gli aspetti che mi portano a dare questa opinione con il fatto che sono stato attratto dal racconto mentre lo leggevo. Dico un po' perché quando stavo per iniziare a leggere i libri di questo mese mi scoraggiavo pensando che il primo fosse questo, anche se poi mi sono reso conto che era Dall'altra parte della porta di Gary L. Blackwood, a rendermi felice, ma (anche se mi è piaciuto di più Blackwood) dopo averlo finito penso ancora che sia stata una lettura divertente, quindi ha tutto questo.

Mi ha sorpreso che Hayden non abbia raccontato dettagliatamente ogni giorno di lezione, ma abbia piuttosto organizzato il racconto in modo tale che i punti salienti della personalità di ognuno (compresa quella dell'assistente) fossero ben evidenziati per il lettore e potessimo seguire il filo del discorso ognuno di loro a modo suo.

I personaggi erano ben descritti dal punto di vista emotivo, anche se in tutto il libro è stato difficile per me sapere con certezza chi fossero alcuni studenti, e non erano molti, ma immagino sia accettabile perché è comune che ciò accada a me con qualsiasi libro, quindi potrebbe essere un problema mio e non tanto della narrazione, ma se è capitato anche a voi vorrei che lo metteste nei commenti :)

Seguendo l'idea dei personaggi, mi è piaciuto che ci fosse un po' di antagonismo da parte di alcuni di loro, che ci fossero degli atteggiamenti sbagliati da parte loro, il che dava un tocco interessante alla storia, che non si rovina per chi , come me, pensavo che un libro fosse noioso o noioso prima ancora di averlo letto perché avevo molto presente l'aspetto “emotivo”, perché questo non è il caso di Like Another Boy.

Certo, ha alcuni momenti di questo tipo, ma la trama si sviluppa maggiormente verso i problemi che hanno ciascuno degli studenti e l'assistente, arrivando di tanto in tanto al sentimentale ma senza essere il centro del libro.

Passando ad un altro aspetto positivo, in generale la storia scivola velocemente e, come se avesse un certo tocco di intrigo, invita il lettore a proseguire la lettura fino a finirla, come dicevo all'inizio di questa recensione.

A proposito di rifinitura, il finale è stato molto improvviso, almeno per me, perché mancavano ancora alcune pagine e il fatto che finisse così mi ha sorpreso molto, anche se in effetti è un gran bel finale (lo immaginavo come il finale di un film e nella mia immaginazione sembrava molto bello XD) e ha anche un epilogo, quindi mi ha lasciato moderatamente soddisfatto.

E con moderatamente intendo il primo aspetto negativo di cui parlerò in questa recensione: la conclusione dei personaggi. In realtà non è poi così negativo, semplicemente non era quello che mi aspettavo, dato che non era un finale “vissero felici e contenti”, o almeno non per tutti, ma in realtà è qualcosa anche di positivo, parte dell'esperienza di avere un libro basato su fatti reali, che non sempre hanno il lieto fine ;-;

Un altro aspetto negativo che ho notato necessita di un leggero spoiler per essere raccontato, quindi se preferite non saperlo per non rovinare questa “sorpresa” che c'è nella storia, passate al paragrafo successivo :). Ora, se arriva lo spoiler, dal momento che una delle mamme dei bambini diventa l'assistente di Torey, avendo sua figlia in classe, cosa che non si noterebbe se non fosse stata spiegata perché non ha realmente una relazione materna, lei ottiene più attaccata ad un'altra studentessa che a lei, aspetto che mi ha un po' sconcertato, che questo legame non fosse sviluppato, ma immagino facesse parte della sua personalità.

Per chiudere questa analisi vorrei aggiungere che facendo questa recensione mi sono reso conto che in realtà gli aspetti negativi non sono molti, tuttavia il libro non mi ha “riempito” del tutto, forse è solo perché non sono abituato a questo genere di cose storie, e che, nonostante la trama sia interessante, non è abbastanza “attiva” da attirarmi completamente, ma comunque non è tra i libri che mi sono piaciuti di più, è bello, ma non mi ha attirato così tanto.

Tuttavia, se sei come me, che legge narrativa per la maggior parte del tempo, questo libro è un buon trampolino di lancio per passare ai libri di saggistica.

  Per parlare di questo romanzo partiamo dal principio, e il principio è un titolo italiano che nella mia testa fa il verso ad A volte r...

McCammon-Loro-Attendono

 

Per parlare di questo romanzo partiamo dal principio, e il principio è un titolo italiano che nella mia testa fa il verso ad A volte ritornano di King e che sposta il centro dell'attenzione dal dove – la città, vero fulcro di questo romanzo di McCammon – al chi.

Il dove nel quale si svolge la gran parte della storia raccontata in Loro attendono è Bethany's sin, sobborgo urbano pulito e curato, sebbene un po' troppo silenzioso. E se è vero che nomen omen, su una città che nel nome si porta la parola peccato qualche domandina me la farei prima di andarci a vivere con tutta la famiglia.

Perché, nonostante Bethany's sin sembri il luogo ideale dove crescere i propri figli, va anche detto che dietro tanti sorrisi cordiali si nasconde il ghigno di gente che sogna di appendere sul camino di casa la testa mozzata di un uomo.

Loro attendono [Bethany's sin in originale] è la terza prova come autore di Robert McCammon dopo Baal, folgorante esordio di un ragazzo che all'epoca ha da poco compiuto ventisei anni.

Quando scrive Bethany's Sin McCammon ha ventotto anni. Non è passato moltissimo tempo dal suo primo romanzo, ma già la pressione deve farsi sentire. Del resto, se devi quotidianamente misurarti con King - gigantesca pietra di paragone per chiunque abbia un po' di successo nel campo della narrativa di genere - va a finire che tu debba metterti a sfornare romanzi per nutrire periodicamente una macchina, quella editoriale, che ti mastica a fondo finché non è riuscita a consumarti del tutto.

A McCammon questo succede una quindicina d'anni dopo il debutto. È il 1992, ormai ha all'attivo tredici tra romanzi e raccolte (una media di un libro all'anno), e probabilmente sfinito, decide di prendersi una lunga pausa dalla macchina da scrivere.
O questo o buttarsi nell'alcol, direbbe King.

Ma ad appena due anni da Baal McCammon è ancora un giovane di belle speranze. Così, nel 1980 firma il contratto per questo romanzo su un veterano del Vietnam che si ritrova a dover affrontare un manipolo di Amazzoni redivive.

Se volessimo leggere il romanzo usando esclusivamente le lenti della metafora, potremmo dire che Bethany's Sin è la storia di un uomo contro la guerra.

Da un lato abbiamo Evan Reid, il protagonista, che ha vissuto nell'inferno, ha subito la prigionia e la tortura ed è riuscito, faticosamente, a fuggirne. Dall'altro delle donne che fanno della battaglia e della carneficina l'unica ragione di vita.
In effetti, però, c'è dell'altro.

Sono anni difficili, questi, per gli USA. È un periodo buio e disastroso sul piano politico e sociale: disoccupazione alle stelle e marginalizzazione delle classi più povere da un lato, progressivo conservatorismo dell'upper class dall'altro.
È la stagione di Reagan e di una società che i poveri li rinchiuderebbe felicemente in un ghetto, per non pensarci più.
Così chi può abbandona le città per rifugiarsi in quei bei sobborghi urbani che conoscono, in questo periodo, il massimo del loro sviluppo.
Gli Ottanta sono anche gli anni di L'alba dei morti viventi, Society ed Essi vivono, tanto per citare pellicole che hanno sfruttato l'horror e il grottesco per raccontare un periodo storico ben preciso.

In questo clima di incertezza e sfiducia, dove basta un niente per ritrovarsi in mezzo a una strada e in cui ogni occasione che ti si para davanti va afferrata senza starci troppo a pensare su, si innesta la storia dei Reid.
Lui, Evan, un veterano che fa sogni profetici e ha ambizioni da scrittore, lei, Kay, che sopporta a fatica le visioni del marito e che trascina tutti a Bethany's Sin perché le viene offerto provvidenzialmente lavoro nel campus cittadino. Proprio nel momento in cui si trovano in maggiore difficoltà, dopo che Evan ha perso il proprio impiego per aver quasi tentato di ammazzare il suo capo.

Vedi tu le coincidenze.

La vita a Bethany's Sin è fantastica, se non fosse che i vicini sono così perfetti da sembrare finti. Le strade poco trafficate, la vita comunitaria ridotta all'osso.
Un posto tranquillo. Sì. Un posto decisamente troppo tranquillo.

Torniamo per un istante indietro di una decina d'anni. È il 1972 e Ira Levin ci regala quel bel romanzo che è Stepford Wives. Anche lì, un sobborgo urbano che farebbe venire l'acquolina in bocca a più di un'agente immobiliare nasconde, sotto quella patina di luogo di lusso destinato alla middle class, un piccolo luna park degli orrori.

Se ho scelto di tirare in ballo Levin non è per far vedere che so costruire una mappa concettuale, ma perché le storie sembrano l'una la versione speculare dell'altra.

A Stepford ci trovavamo dentro una comunità dominata dal Club degli Uomini, il cui scopo ultimo era trasformare le proprie compagne in robot sessualmente appaganti. A Bethany's Sin sono invece le donne che si cooptano per trasformare i mariti in schiavi sessuali, azzoppandoli come una qualsiasi Annie Wilkes perché non scappino, e usandoli per generare figli. Anzi, figlie, ché i maschietti vengono per lo più offerti a Madre Natura e gettati via come scarti inutili (e se la cosa vi sembra eccessiva, ricordatevi che viviamo in un'epoca in cui l'infanticidio femminile è ancora una piaga largamente diffusa).

Insomma, a Bethany's sin ci troviamo in una comunità dove il rapporto tra i sessi si è rovesciato, con gli uomini ridotti a male necessario quando utili per la riproduzione o, alla peggio, trasformati in divertenti prede da cacciare nelle notti di luna piena.

L'idea è interessante. Lo svolgimento un po' meno.

Sicuramente va dato merito a McCammon di aver tentato di rinnovare il topos della città infestata utilizzando come agente corruttivo una antichissima e leggendaria stirpe di guerriere.  Il richiamo alla mitologia - seppure una mitologia riadattata - è continuo. Evan si contrappone alla Regina-sindaco delle Amazzoni come in una riedizione moderna del mito di Achille e Pentesilea, contribuendo al carattere di epicità dello scontro finale. Così come è curiosa l'interpretazione che viene data della splendida Artemide Efesia.

Eppure alle donne di Bethany's sin manca una cosa importante: la volontà. Quelle che agiscono contro Evan e gli altri uomini non sono le donne che hanno messo piede a Bethany's sin al seguito di un camion per il trasloco bensì i loro involucri, nei quali si sono annidati gli spettri delle ultime Amazzoni.

Intendiamoci. Mi rendo conto che non era probabilmente nelle intenzioni di McCammon intavolare un dibattito sui rapporti di genere con un romanzo dell'orrore ma, dal mio punto di vista, quella della lotta tra generi è diventata una macrotematica che ha avuto il sopravvento sulla storia. E, inevitabilmente, sulla recensione.

Il problema è che in tutto il romanzo non c'è una sola figura femminile degna di nota. Sono tutte o incapaci di difendersi da sole dall'influsso della Regina-sindaco (è il caso della moglie di Evan, Kay) o fatue biondine da una battuta e via.
Ed è questa la cosa che leggendo mi si è parata davanti come la testa di un uomo alto due metri che ti si siede davanti al cinema, disturbandoti nella visione del film.

Per dirla sinteticamente: in Loro attendono non c'è un singolo personaggio femminile che di profilo abbia uno spessore. Eppure è un romanzo dove le donne hanno un ruolo centrale. L'unica che si discosta da questo piattume è il sindaco di Bethany's sin, ma anche in lei la volontà è  ormai sottomessa al potere della Amazzoni.
Le donne di Bethany's sin sono creature deboli, suggestionabili. Acquistano forza e potere solo nel momento in cui le Amazzoni le posseggono, cessando di esistere.

L'esempio lo dà Kay, la moglie di Evan. Se McCammon avesse scelto lei nel ruolo dell'eroe sono convinta che tutto il romanzo ne avrebbe acquistato non solo in originalità ma nel rafforzamento del tema centrale, che riguarda l'affrontare le proprie paure e debolezze a costo della vita.

Così invece abbiamo il personaggio di una donna ottusa, un po' isterica, che nega l'evidenza fino quasi a morirne e che si salva solo perché il marito interviene in suo soccorso, sacrificandosi per lei.

A questo che, per me, è il più grande difetto dell'impianto narrativo si aggiunge una gestione non proprio ottimale della suspense.
E qui, di nuovo, sono costretta a fare paragoni con Levin.

Se in Stepford Wives non capiamo, fino all'ultimissimo capitolo, che le paturnie di Joanna non sono poi paturnie, che c'è davvero qualcosa che non va nelle sue vicine, qui il tentativo di McCammon di giocare l'elemento sorpresa fallisce senza appello.
L'impressione che si ha durante la lettura è che l'autore sia stato incerto fino all'ultimo se rivelare subito la natura dell'allegra comunità di Bethany's Sin, oppure tenere tutto nascosto per il gran finale.

Non funziona. Non funziona perché che a Bethany's Sin le donne non sono quello che sembrano lo capiamo praticamente dal primo incontro con i vicini di casa.

Lo capiamo noi ma non il protagonista che, nonostante i sogni premonitori impiega metà romanzo per comprendere che dovrebbe fare subito i bagagli e andarsene.
E sì che la soluzione gli viene praticamente urlata all'orecchio dal marito mutilato della loro vicina.

Ma c'è di più.
Arriva il momento in cui Evan si convince che tutte le donne del circondario siano delle pazze assassine. Eppure, nonostante l'elefante che gli balla nella camera da letto, non batte ciglio quando la dottoressa dell'unico centro medico della comunità gli dice che deve prendere in carico sua moglie, che a quel punto ha già dimostrato di non essere più se stessa, per poterla sottoporre a delle analisi.
La cosa più divertente di quella scena? Il fatto che Evan non sia costretto a consegnare la moglie la notte stessa in cui il medico gli piomba in casa. No. Lui la fa ricoverare tranquillamente la mattina successiva. Quando la maggior parte di voi avrebbe già provveduto a imbarcarsi sul primo volo di sola andata per l'Alaska.

È questo il momento in cui si vede tutto il meccanismo del romanzo, meccanismo che avrebbe dovuto restare al riparo dagli occhi del lettore. A McCammon serve che Kay vada in ospedale. Serve che Evan resti da solo. Gli è necessario per la chiusura del romanzo. E lo fa mandando la logica a cogliere margherite.

Purtroppo non basta uno stile ricco di immagini e fortemente evocativo - una scrittura capace di rendere trasparente il foglio dando modo al lettore di vedere la scena descritta - a risollevare il giudizio su un romanzo nel quale il tema centrale viene sviluppato per inerzia e dove il protagonista ha un arco di trasformazione che appare forzato rispetto allo sviluppo dell'intreccio.

In conclusione, Loro attendono è un romanzo che potenzialmente consiglio ai nostalgici di un certo modo di fare orrore, fratello degli anni Ottanta. Ma, ecco, non mi affannerei a cercarlo

  Hanno Sete (They Thirst bell'originale in inglese) è il terzo libro di Robert McCammon pubblicato nel 1981. Un male vecchio come...

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Hanno Sete (They Thirst bell'originale in inglese) è il terzo libro di Robert McCammon pubblicato nel 1981.

Un male vecchio come il mondo si è trasferito dalle lande desolate di un paese dell'est europeo nel calderone ribollente della Città degli Angeli, più di otto milioni di persone e un campionario di ogni genere di umanità... Il contagio che questo male porta con sé si diffonde, prima lentamente, poi in proporzione geometrica: la città e l'intera nazione sono minacciate, poi toccherà al resto del mondo.

Uno sparuto gruppetto di persone si frappone al piano di un Principe Non-Morto: un detective della omicidi che quel male ha conosciuto durante la sua infanzia, un prete condannato a morte da una malattia incurabile, un attore della televisione che cerca di strappare la donna amata a un destino peggiore della morte, una giornalista abituata a rimestare nel torbido e un bambino che vuole vendicare l'uccisione dei suoi genitori. Le armi con cui combattono sono poche e inadeguate, ma la loro arma migliore è la fede...

Dopo Dracula di Bram Stoker e Le notti di Salem di Stephen King, un capolavoro assoluto della letteratura vampirica da uno dei maestri incontrastati dell'Horror.

TRAMA

Quella notte c'erano dei demoni nel focolare.

Facevano mulinello, si inarcavano e mandavano scintille negli occhi del bambino che sedeva accanto al fuoco, le gambe incrociate sotto di sé in quel modo inconsapevole che hanno i ragazzi di essere snodati. Il mento sorretto dal palmo delle mani, i gomiti sostenuti dalle ginocchia, sedeva in silenzio, guardando le fiamme riunirsi, fondersi e scoppiare in frammenti che sibilavano segreti. Aveva compiuto nove anni solo sei giorni prima, ma adesso si sentiva grande, perché papà non era ancora tornato a casa e quei demoni nel fuoco stavano ridendo.

Mentre sono via sarai tu il capo della casa, aveva detto papà, avvolgendo un tratto di spessa corda attorno a quella zampa d'orso che era la sua mano. Devi aver cura di tua madre e assicurarti che tutto vada bene mentre io e tuo zio siamo via. Chiaro?

Sì, papà.

E vedi di portarle dentro la legna quando te lo chiede, e sistemala bene lungo la parete in modo che possa asciugarsi. E qualsiasi altra cosa ti chiederà, la farai, vero?

La farò. Gli sembrava ancora di vedere torreggiare sopra di sé il volto di suo padre screpolato e segnato dal vento e di sentire sulla spalla la sua mano ruvida come una pietra del camino. La presa di quella mano gli aveva trasmesso un messaggio silenzioso: È una cosa seria quella che sto facendo, ragazzo. Non fare errori. Bada a tua madre e sii prudente.

Il bambino aveva detto di aver capito e papà aveva annuito soddisfatto.

Il mattino seguente aveva guardato dalla finestra della cucina lo zio Joseph che agganciava i due vecchi cavalli grigi e bianchi al carro. I genitori si erano appartati, in piedi dall'altra parte della stanza vicino alla porta assicurata con una grossa spranga imbullonata. Papà aveva indossato il berretto di lana e il pesante pastrano di pelle di montone che mamma gli aveva confezionato anni addietro come regalo di Natale, poi si era messo attorno alla spalla la corda avvolta. Il bambino aveva mangiucchiato distrattamente da una scodella di brodo di carne, sapendo che stavano sussurrando in modo che lui non li sentisse. Ma sapeva che, se avesse ascoltato, non avrebbe comunque voluto conoscere per davvero quello che si stavano dicendo. Non è giusto! si disse mentre intingeva le dita nel brodo e pescava un boccone di carne. Se devo essere il capo della casa, non dovrei conoscere anche i segreti?

Dall'altra estremità della stanza la voce di mamma si era improvvisamente alzata senza più controllo. Lascia che lo facciano gli altri! Ti prego. Ma papà le aveva preso il mento, tenendole alto il viso e guardandola con tenerezza in quegli occhi grigi come il mattino. Devo farlo, aveva detto, e lei sembrava volesse piangere e non potesse. Aveva esaurito tutte le lacrime la notte prima, sdraiata sul letto nell'altra stanza. Il bambino l'aveva sentita per tutta la notte. Era come se le pesanti ore del buio le stessero spezzando il cuore e non ci sarebbero mai state ore di luce sufficienti a rincollarne i pezzi. No, no, no, mamma stava ora ripetendo, ancora e ancora, come se quella parola avesse qualcosa di magico capace di impedire a papà di uscire fuori alla luce del giorno nevoso, come se quella parola avesse potuto sigillare la porta, legno contro pietra, per poter chiudere lui dentro e i segreti fuori.

E, quando lei aveva fatto silenzio, papà aveva preso la doppietta dalla rastrelliera accanto alla porta. Aveva aperto l'arma e caricato con cartucce a pallettoni entrambe le camere, rimettendola giù con attenzione. Poi aveva tenuto stretta la mamma e l'aveva baciata e le aveva detto: Ti amo. E lei gli si era attaccata come una seconda pelle. E a quel punto lo zio Joseph aveva bussato alla porta e chiamato: Emil! Siamo pronti a partire!

Papà l'aveva abbracciata ancora per un attimo, poi aveva afferrato il fucile che aveva comprato a Budapest e aveva aperto la serratura della porta. Si era fermato sulla soglia e i fiocchi di neve gli volteggiavano intorno. André! aveva detto, e il bambino aveva alzato lo sguardo. Prenditi cura di tua madre e assicurati che questa porta rimanga ben sprangata. Capito?

Sì, papà.

Sull'uscio, stagliato sullo sfondo del cielo pallido e dei denti violacei delle lontane catene montuose, papà aveva rivolto lo sguardo verso la moglie e aveva pronunciato cinque parole a voce bassa. Erano poco chiare, ma il bambino le aveva percepite, con il cuore che gli batteva in un oscuro disagio.

Papà aveva detto: Fa' attenzione alla mia ombra.

Quando si fu allontanato, il sibilo del vento di novembre riempì lo spazio che aveva occupato. Mamma si fermò sulla soglia, con la neve che fioccava sui suoi lunghi capelli, invecchiandola ogni momento di più. Teneva gli occhi fissi sul carro mentre i due uomini incitavano i cavalli lungo il sentiero lastricato che li avrebbe portati a raggiungere gli altri. Rimase ferma lì per molto tempo, quasi a sfidare la falsa, bianca purezza del mondo oltre quella porta. Quando il carro sparì alla vista, si girò, chiuse la porta e la sprangò. Poi rivolse lo sguardo verso il figlio e disse con un sorriso che sembrava più una smorfia: Fa' i compiti, adesso.

Erano tre giorni che era via. Ora i demoni ridevano e danzavano nel fuoco e qualcosa di orribile, intangibile era penetrato nella casa per piazzarsi nella sedia vuota davanti al camino, per sedere tra il bambino e la donna durante i loro pasti serali, per andar loro dietro come una folata di cenere nera sollevata da un vento errante.

Gli angoli delle due stanze della casa divennero progressivamente freddi via via che il ciocco di legno si consumava lentamente, e il bambino poteva vedere un flebile fantasma di nebbia esalare volteggiando dalle narici della madre ogni volta che lei espirava.

«Prendo l'accetta e vado a fare altra legna», disse il bambino, facendo per alzarsi dalla sedia.

«No!», gridò la madre immediatamente, e alzò la testa. I loro sguardi s'incontrarono e i loro occhi grigi rimasero a fissarsi per qualche secondo. «Quella che abbiamo è sufficiente per la notte. Adesso è troppo buio di fuori. Puoi aspettare fino alle prime luci».

«Ma quella che abbiamo non è abbastanza...».

«Ti ho detto di aspettare fino al mattino!». Distolse lo sguardo quasi subito, come se si vergognasse. I ferri da maglia luccicavano alla luce del fuoco mentre lavorava lentamente a un maglione per il bambino. Quando lui si sedette di nuovo, vide il fucile da caccia nell'angolo lontano della stanza. Emanava un'opaca luce rossastra per il riflesso del fuoco, come un occhio vigile nell'oscurità. E adesso nel camino la fiamma si alzò, mulinò e si frantumò; la cenere si agitò in un vortice su per la cappa e fuori. Il bambino stette a guardare; il calore gli striava gli zigomi e la base del naso, mentre la madre si dondolava nella sedia dietro di lui, gettando ogni tanto un'occhiata al profilo aguzzo del figlio.

In quel fuoco il bambino vedeva delle immagini comporsi, disegnando un murale vivente: vide un carro nero tirato da due cavalli bianchi con pennacchi da funerale, il freddo respiro che usciva in nuvolette. Dentro quel carro una semplice, piccola bara. Altre persone seguivano il carro, con gli stivali che scricchiolavano sulla crosta di neve. Suoni borbottati. Segreti stratificati sulle facce. Occhi socchiusi, spauriti che fissavano le pendici grigio-viola dei Monti Jaeger. Il ragazzo dei Griska giaceva nella bara, e ciò che rimaneva di lui veniva ora trasportato in processione al cimitero dove il lelkész aspettava.

La morte. Al bambino era sempre sembrata così fredda, estranea e distante, qualcosa che non apparteneva a questo mondo, non al mondo di mamma e papà, ma a quello in cui aveva vissuto nonna Elsa quando era ammalata e aveva un colorito giallastro. Papà aveva usato allora quella parola: Sta morendo. Quando sei nella camera con lei, devi stare molto buono, perché non può più cantare per te e ora vuole solo dormire.

Per il bambino la morte era un tempo in cui non c'erano più canzoni e potevi essere felice solo quando avevi chiuso gli occhi. Ora stette a fissare il carro funebre dei suoi ricordi fino a quando il ciocco si sgretolò e le lingue di fiamma si sparpagliarono altrove. Ricordava di aver sentito dei bisbigli tra gli abitanti di Krajeck vestiti di nero: Una cosa terribile. Aveva solo otto anni. Adesso sta con Dio.

Dio? Speriamo, e preghiamo che sia davvero Dio quello con cui ora sta Ivon Griska.

Il bambino ricordava. Aveva visto la bara calata giù con corda e carrucola nell'oscuro riquadro scavato nel terreno, mentre il lelkész intonava benedizioni e agitava il crocifisso. La bara era stata chiusa con i chiodi e poi avvolta col filo spinato. Prima che si cominciasse a ricoprirla con badilate di terra, il lelkész si era fatto il segno della croce e aveva lasciato cadere il crocifisso all'interno della tomba. Questo era stato una settimana addietro, prima che la vedova Janos scomparisse; prima che la famiglia Sandor svanisse nella notte nevosa della domenica, abbandonando tutto ciò che possedeva; prima che Johann l'eremita riferisse di aver visto delle figure nude ballare sulle alture spazzate dal vento dei Monti Jaeger e correre assieme ai grandi lupi della foresta che infestavano quella montagna stregata. Subito dopo che Johann era sparito anche lui assieme al suo cane, Vida. Il bambino ricordava l'inusuale durezza sul viso di suo padre, il fremito di qualche oscuro segreto nei suoi occhi. Una volta aveva sentito papà dire a mamma: Sono di nuovo in movimento.

Nel caminetto la legna si muoveva e gemeva. Il bambino strizzò gli occhi e si fece indietro. Alle sue spalle i ferri da maglia della madre erano immobili; la testa di lei era drizzata verso la porta e stava ad ascoltare. Il vento ruggiva, portando il ghiaccio giù dalla montagna. Si sarebbe dovuto far forza per aprire la porta il mattino successivo, e la crosta di ghiaccio si sarebbe frantumata come vetro.

Papà ormai dovrebbe essere a casa, si disse il bambino. Fa così freddo là fuori stanotte, così freddo... Di sicuro papà non tarderà molto. Sembravano esserci dei segreti dovunque. Appena la notte prima qualcuno era penetrato nel cimitero di Krajeck e aveva aperto, scavando, dodici tombe, compresa quella di Ivon Griska. Le bare erano sparite, ma girava voce che il lelkész avesse trovato ossa e teschi sparsi nella neve.

Qualcosa batté forte alla porta, un rumore come quello di un martello che percuote un'incudine. Una volta. E poi di nuovo. La donna sobbalzò sulla sedia e si girò.

«Papà», gridò con gioia il bambino. Quando si alzò, le forti strinature di calore sul viso furono dimenticate. Si diresse verso la porta, ma la madre lo afferrò per la spalla.

«Zitto!», sussurrò, e insieme aspettarono, con le Altri colpi alla porta ~ un suono sordo, pesante. Il vento urlava, e sembrava il lamento della mamma di Ivon Griska quando la bara sigillata era stata calata nel terreno ghiacciato.

«Apri la porta!», disse papà. «Sbrigati! Ho freddo!».

«Grazie a Dio!», gridò la mamma. «Oh, grazie a Dio!». Si diresse rapida alla porta, tirò via la sbarra e la spalancò. Un torrente di neve le frustò il viso, il vento le deformò gli occhi, il naso e la bocca. Papà, una forma indistinta con il cappello e il pastrano, si fece avanti alla debole luce del focolare e diamanti di ghiaccio gli scintillavano nelle sopracciglia e nella barba. Prese la mamma fra le braccia, il corpo massiccio che quasi la avvolgeva. Il bambino si fece avanti per abbracciare il padre, grato che fosse tornato perché essere l'uomo di casa era molto più difficile di quanto avesse immaginato. Papà si avvicinò, passò una mano fra i capelli del bambino e gli diede una vigorosa pacca sulla spalla.

«Grazie a Dio sei a casa!», disse mamma, stringendosi a lui. «È finita, vero?».

Oggi voglio presentarvi un libro un po’ diverso dal solito. In realtà vorrei presentarvi un’autrice un po’ diversa da tutte le altre, ma h...

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Oggi voglio presentarvi un libro un po’ diverso dal solito. In realtà vorrei presentarvi un’autrice un po’ diversa da tutte le altre, ma ho iniziato questo blog con l’intento di presentare libri e sarò coerente con me stessa scegliendo una delle sue opere in rappresentanza delle altre. Non che poi non possa tornare a presentarvi le altre, ma vorrei prima fare un giro di prova con autori diversi per dare spazio a tutti quelli che sono entrati nella mia vita, una specie di par condicio per intenderci!

Il libro che vi presenterò è Figli di nessuno, di Torey Hayden.

Un bambino di sette anni che non sa parlare se non per ripetere le previsioni del tempo e le parole degli altri, un'incantevole bambina di sette anni che non sa nè leggere nè scrivere a causa di un trauma cranico causatole dal padre, un violento bambino di dieci anni che ha visto la matrigna uccidere suo padre e suo fratello e che passa da una famiglia all'altra, una timidissima dodicenne espulsa dalla scuola perché incinta... Nessuno, se non la maestra dei miracoli, aveva voluto occuparsi di loro. Nessuno aveva cercato di capirli e di aiutarli ad affrontare la vita. Un libro struggente nel quale Torey Hayden intende mettere di fronte all'orrenda realtà dei bambini maltrattati.)

So che ho detto che non sono qui per presentare l’autrice, ma un’introduzione in questo caso è d’obbligo: Torey Hayden è una psicologa infantile e insegnante di sostegno americana, oltre ad aver svolto numerose altre attività nel campo dell’educazione. In gran parte dei suoi libri Torey Hayden racconta proprio le sue esperienze personali di assistenza a scuola a bambini con diversi tipi di problemi, che gli sono valse il soprannome di “maestra dei miracoli”.

Figli di nessuno è una delle tante storie reali che Torey ci racconta. Non so se la mia è solo deformazione professionale, ma trovo questi libri di una bellezza unica, data non solo dall’abilità di scrittrice di romanzi che l’autrice ha più volte dimostrato, ma anche da quello che ritengo un nobile intento, ovvero far conoscere questi bambini a tutti, aiutare a comprenderli e a non additarli come “ingestibili”, perché tutti hanno una storia, tutti si portano qualcosa dentro, nessun bambino nasce per essere un problema.

Torniamo quindi ai Figli di nessuno e alla sua trama:

“Prendete quattro bambini di età diversa e con delle storie diverse e con problemi molto diversi. Metteteli in un’unica classe con un’insegnante che arriva a prendersi cura profondamente di ognuno di loro. Essenzialmente questo è ciò che è successo quando l’insegnante speciale Torey Hayden prese in mano “la classe che si creò da sola”. Per primo arrivò Boo, un bambino di sette anni gravemente autistico. Poi arrivò Lori, anche lei di sette anni, vittima di traumi cerebrali come risultato di abusi fisici. Quindi arrivò Tomaso, dieci anni, che si era occupato di altre persone e questo lo aveva ferito così tanto che era deciso a ferire gli altri e a far sì che lo odiassero. Infine arrivò Claudia, la ragazzina dodicenne dell’alta borghesia, brillante e capace che aveva dovuto lasciare la sua scuola privata cattolica quando si era scoperto che era incinta. Questo è il racconto dell’orrenda realtà dei bambini maltrattati, ma anche delle straordinarie possibilità di recupero che la psicologia, la sensibilità e l’amore possono aprire.”

A coloro che decideranno di conoscere i Figli di nessuno, invito anche a consultare il sito internet dell’autrice (il cui link, come sempre, potrete trovare a fine articolo), in cui vengono riportate anche le notizie su come questi bambini, ormai adulti, vivono oggi.

Se anche una sola persona deciderà di capire e leggerà questo o un altro dei libri di Torey Hayden saprò che il tempo speso a creare questo blog non sarà stato sprecato.

TRAMA

La classe si creò da sé.

C'è una vecchia legge della fisica che parla dell'orrore che la Natura ha per il vuoto. Quell'autunno, a quanto pare, la Natura era entrata in azione. Doveva esserci un vuoto che non avevamo notato, perché d'un tratto, senza che nessuno avesse programmato nulla, cominciò a formarsi una classe. Il vuoto non si colmò di colpo, come a volte succede, ma lentamente, come avviene ogni volta che la Natura crea qualcosa di grande.

In agosto, all'inizio dell'anno scolastico, lavoravo come insegnante di sostegno in una scuola elementare. I bambini con maggiori difficoltà di apprendimento lasciavano la loro classe per mezz'ora al giorno e venivano da me, da soli o in gruppetti di due o tre. Il mio compito era quello di tenerli il più possibile al passo con la loro classe, soprattutto nella lettura e in matematica, ma qualche volta anche in altre materie. Una classe mia, però, non ce l'avevo.

Lavoravo in quel distretto scolastico da sei anni, quattro dei quali li avevo dedicati all'insegnamento in una classe chiusa, come la chiamavano gli educatori: un corso che si svolgeva in un'unica aula, dove i bambini non potevano interagire con gli altri alunni della scuola. Allora insegnavo ai bambini con gravi problemi di instabilità emotiva. Poi era arrivata la Legge 94- 142, nota come legge d’integrazione, che si prefiggeva di inserire gli alunni della scuola speciale in un ambiente che fosse il meno chiuso possibile e di ridurre al massimo le loro lacune con lezioni supplementari, i corsi di sostegno. Le classi chiuse, dove i bambini speciali erano tenuti a distanza da quelli normali, sarebbero sparite. E così sparivano le classificazioni. Che bella legge. Che begli ideali. E intanto, i miei bambini e io eravamo intrappolati nella realtà.

Quando la legge fu approvata, il mio corso chiuso venne smantellato. I miei undici alunni, insieme ad altri quaranta handicappati gravi del distretto, vennero integrati nelle classi normali. Rimase aperta una sola classe speciale a tempo pieno, quella per ritardati gravi, bambini che non camminavano, non parlavano, o non avevano il controllo delle funzioni fisiologiche.

Mi fu assegnato un corso di sostegno in una scuola dall'altra parte della città, la stessa alla quale aveva fatto capo la mia classe speciale. Questo era successo due anni prima. Forse avrei dovuto accorgermi del vuoto che si stava creando. Forse non avrei dovuto sorprendermi, quando vidi colmarsi quel vuoto.

Stavo scartando il mio pranzo, un Big Mac di MacDonald's, un vero e proprio banchetto, per me, dal momento che nella mezz'ora di intervallo per il pranzo non avevo certo il tempo di montare in macchina e attraversare tutta la città per prendere un hamburger, come facevo quando insegnavo alla vecchia scuola. Questo me l'aveva portato Bethany, una psicologa della scuola. Lei capiva la mia hamburger-dipendenza.

Stavo appunto estraendo il mio hamburger dal contenitore di polistirolo, facendo bene attenzione a non far uscire la valanga di lattuga, come sempre mi succedeva, e cercando, per l'ennesima volta, di ricordare quella canzoncina idiota che fa: <Due polpette di puro manzo...> Non pensavo al lavoro.

<Torey?>

Alzai gli occhi. Birk Jones, direttore distrettuale delle classi speciali, giganteggiava sopra di me, la pipa spenta che gli pendeva dalle labbra. Ero così concentrata sul mio hamburger che non l'avevo nemmeno sentito entrare nella sala insegnanti.

<Oh, salve, Birk.>

<Hai un minuto?>

<Sì, certo>, dissi, anche se in realtà non ce l'avevo. Mi era rimasto soltanto un quarto d'ora per trangugiare l'hamburger e le patatine, bere la mia Dr. Pepper e tornare alla pila di compiti ancora da correggere che mi aspettava in classe. La lattuga scivolò fuori dal Big Mac e mi cadde sulle dita.

Bethany spostò la sua sedia e Birk si sedette fra noi due.

<Ho un piccolo problema, e speravo che tu potessi aiutarmi a risolverlo>, mi disse.

<Ah sì? Che genere di problema?>

Si tolse la pipa di bocca e ne scrutò il fornello. <Sette anni, suppergiù.> Scoprì i denti. <È all'asilo di Marcy Cowen. Un maschietto. Autistico, credo. Sai com'è, piroette, giri vorticosi Parla da solo. Le stesse cose che facevano i tuoi bambini. Marcy non ce la fa più. L'ha avuto in classe anche l'anno scorso, per un po', e il bambino non è migliorato per niente, nemmeno con l'aiuto di un assistente qualificato. Dobbiamo cambiare tecnica, con lui.>

Continuai a masticare assorta il mio hamburger. <E che cosa potrei fare, io, per aiutarti?>

<Be'...> Lunga pausa. Mi guardava tanto intensamente, mentre mangiavo, che pensai di dovergli forse offrire un po' del mio hamburger. <Be', Tor, ho pensato che... forse potremmo farlo venire qui.>

<Che vuoi dire?>

<Potresti occupartene tu.>

<Io, occuparmi di lui?> Una patatina mi si bloccò in gola.

<In questo momento non sono attrezzata per occuparmi di bambini autistici, Birk.>

Lui arricciò il naso e si chinò verso di me, con aria confidenziale. <Tu potresti farcela. Non credi?> Fece una pausa, per vedere se rispondevo o morivo soffocata dalla mia patatina. <Verrebbe soltanto per mezza giornata. All'asilo segue le classi regolari. E nella classe di Marcy non combina niente. Pensavo che forse potresti fargli delle lezioni speciali. Come facevi con gli altri ragazzini che avevi.>

<Ma, Birk... Io non ho più quella classe. Adesso insegno materie di studio. E i bambini del mio gruppo di sostegno?>

Scrollò le spalle affabilmente. <In qualche modo li sistemeremo.>

Il ragazzino sarebbe arrivato ogni giorno alle 12,40. Fino alle due, dandosi il cambio, ci sarebbero stati anche gli altri bambini in classe, ma poi saremmo stati soli, lui e io, con metà della giornata scolastica davanti a noi. L'idea di Birk era che se anche avesse distrutto la mia aula, durante le ore di sostegno con gli altri bambini, non sarebbe stato poi tanto peggio che se avesse distrutto l'asilo di Marcy Cowen. Avendo lavorato per anni nei corsi chiusi, io possedevo quella cosa misteriosa che Birk chiamava esperienza. Tradotto, significava semplicemente che nulla poteva più turbarmi.

Preparai la stanza per l'arrivo del ragazzino. Misi al riparo gli oggetti fragili, ficcai in un ripostiglio tutti i giochi fatti di pezzi piccoli, che avrebbe potuto ingoiare, e spostai i banchi e i tavoli per poter avere con lui un contatto più intimo di quanto di solito dovevo avere con i miei alunni dei corsi di sostegno.
Terminato il lavoro, indietreggiai di un passo per valutare l'opera, e mi si allargò il cuore. Insegnare nei corsi di sostegno non era particolarmente gratificante. La classe chiusa mi mancava. Avrei voluto avere ancora una classe mia, con i miei bambini. Ma soprattutto, mi mancava quella gioia misteriosa che sempre mi dava lavorare con i bambini emotivamente instabili.

Il lunedì della terza settimana di settembre conobbi Boothe Birney Franklin. Sua madre lo chiamava Boothe Birney anche quando si rivolgeva a lui. La sorellina, di tre anni, arrivava soltanto a pronunciare Boo. Pensai che questo poteva bastare anche a me.

Boo aveva sette anni. Era un bambino magico, come spesso mi parevano magici i miei bambini. Nella sua espressione c'era la stessa ingannevole concretezza dei sogni. Figlio di una coppia mista, aveva la pelle color té al latte. I capelli erano una massa enorme di morbidi riccioloni quasi neri. Gli occhi erano verdi, un verde fosco e misterioso, un verde mare, delicato e cangiante. Sembrava uscito da un libro illustrato di Tasha Tudor. Non era molto cresciuto, per avere sette anni. Gliene avrei dati cinque, forse, non di più.

La madre lo spinse in classe, mi disse qualche parola e se ne andò. Boo, adesso, apparteneva a me.

  La formazione napoletana che salutò l'arrivo del nuovo millennio pubblicando l'album "que vendrà"La vida La prim...

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La formazione napoletana che salutò l'arrivo del nuovo millennio pubblicando l'album "que vendrà"La vida

La prima vita dei 99 Posse durò dal 1991 fino al 2001. Poi lo stop, e la reunion nel 2009. Il gruppo napoletano è tutt'ora in attività e lo scorso aprile ha pubblicato il singolo "Comanda la gang". Ma facciamo un passo indietro, fino al maggio del 2000 quando esce l'album "La vida que vendrà", l'ultimo pubblicato prima che i membri della formazione napoletana si stringessero la mano e prendessero strade diverse. Per celebrare il compleanno del frontman dei 99 Posse, Luca Persico in arte 'O Zulu che nella giornata di oggi compie 51 anni, ripubblichiamo la recensione del disco di Laura Centemeri che uscì sulle nostre pagine.

Sono molto avanti i 99 Posse, rispetto alla media di quello che si produce musicalmente in Italia. Lo dimostrano con questo album dal sound decisamente all'avanguardia nell'elettronica, abbinato a testi che sono ora fotografie senza censure di storture sociali, ora analisi sociologiche degne di un manuale. Una combinazione - quella tra un suono che pesca dal meglio dell' avanguardia internazionale, e testi che dipingono la realtà di un paese pieno di contraddizioni, come l'Italia - che è una vera boccata di aria fresca, in un panorama musicale che tende sempre più al ripiegamento su temi minimalisti, all'autoreferenzialità, all'individualismo e alla smussatura, anche musicale, degli spigoli e delle occasioni di conflitto.

Lo scontro non spaventa i 99 Posse: è la loro quotidianità di musicisti per cui la musica è il supporto di un messaggio di critica al sistema. Ma, badate bene, nonostante la musica sia un mezzo, non è mai sacrificata né messa in secondo piano. E' un tutt'uno con il suo messaggio, e, a sua volta, propone un recupero di ispirazioni che vengono dal passato mescolate con la modernità più spinta, a testimonianza che è possibile essere parte integrante del mondo di oggi senza perdere di vista quei valori di libertà, uguaglianza, fraternità, oggi messi a rischio da uno sviluppo che - lo dice anche il Papa, non solo i vetero-comunisti - mette a rischio la dignità dell' individuo.

Il discorso che i 99 Posse sviluppano in questi 74 minuti di musica vuole parlare a un pubblico ampio, a chiunque, in fondo, si trovi oggi a disagio in una società governata sempre più dalle regole dei sondaggi e del marketing.

Un mondo che ha perso la memoria di parole che per i 99 Posse, invece, non sono mai state così attuali. Si parte con il trascinante prologo di "Comincia adesso" ("Comincia adesso a gridare tutta la rabbia che c'hai nel corpo no, non la trattenere, comincia adesso a ricordare, ancora non è troppo tardi per incominciare il futuro"); per poi trovarsi immersi, inaspettatamente, nelle atmosfere dub di "Sfumature" che mettono in evidenza la bravura di Meg, che trasforma la sua voce in una carezza jazz. Un brano, questo, che si fa riflessivo nel testo recitato dalla voce di Zulu: "C'è il bianco, il nero e mille sfumature di colori in mezzo, e lì in mezzo siamo noi coi nostri mondi in testa tutti ostili e pericolosamente confinanti, siamo noi un po' paladini della giustizia un po' pure briganti, siamo noi spaccati e disuguali, siamo noi frammenti di colore, sfumature dentro a un quadro da finire".

Il singolo "L'anguilla" ci riporta invece ad atmosfere più tese, con le parole che si susseguono col ritmo di una mitragliata: un brano che è il manifesto di una filosofia di vita da irriducibili ("Non mi avrete mai come volete voi"). "All'antimafia", con un inizio "sceneggiato", si prende gioco a ritmo reggae dei poliziotti che trattano come criminali chi al massimo si fa una canna. Decisamente rock le sonorità di "Esplosione imminente", triste quadro della guerra tra poveri ormai in atto e testimoniata dalle richieste sempre più pressanti di "tolleranza zero".

Tra i pezzi forti dell'album, "Yankee go home" dove l'elettronica è messa al servizio di un brano chiuso da un'imperdibile campionatura della voce di Cossiga che rivendica gli accordi nucleari da lui stretti con gli Usa senza passare dal Parlamento.

Ci sono poi lo scanzonato rap di "Comuntwist", ovvero: cosa vuol dire essere oggi comunisti, e la ballata "Povera vita mia", preceduta da un canto popolare del Cilento (poi ripreso nel brano da Meg), sul lavoro che oggi non solo non è più un diritto ma fa tanti morti quanti una guerra, complice una legislatura tappabuchi (vedi il lavoro interinale) che alimenta lo sfruttamento: "Il lavoro interinale non è altro che una prestazione occasionale di lavoro manuale non qualificato, esattamente il caso in cui il rischio d'incidente sul lavoro è quintuplicato, e tutto questo non è capitato, ma è stato pensato, progettato e realizzato dal padronato, in combutta con l'apparato decisionale dello stato, per il quale la vita di un proletario non vale - non dico niente. ma sicuramente non vale il costo di un' assunzione regolare. con tanto di corso di formazione professionale".

Padronato, proletario: sono alcune delle parole che, come il termine disoccupato, si ha la tendenza oggi a evitare nei discorsi pubblici. Ma i 99 Posse non hanno paura di essere fuori moda e per questo chiudono il disco con una cover niente meno che degli Inti Illimani, anzi, con il loro inno, l 'inno di generazioni di comunisti, "El pueblo unido", riletto in chiave hip-hop, con l'augurio che "serà mejor la vida que vendrà".

fonte: https://www.rockol.it/news-726200/99-posse-compleanno-zulu-recensione-la-vida-que-vendra-video

  Robert R. McCammon (Birmingham, 17 luglio 1952) è un romanziere statunitense. Ha debuttato nel 1978 col romanzo Baal, iniziando una...

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Robert R. McCammon (Birmingham, 17 luglio 1952) è un romanziere statunitense.

Ha debuttato nel 1978 col romanzo Baal, iniziando una prolifica carriera di romanziere che lo ha portato a scrivere un totale di tredici romanzi prima di prendersi un lungo periodo di pausa dal lavoro alla fine del 1992. Recentemente è tornato a pubblicare: nel 2002 si è riaffacciato sul mercato con Speaks the Nightbird e nel 2007 è arrivato l'ultimo The Queen of Bedlam.

In Italia McCammon è stato recentemente riscoperto dalla Gargoyle Books, la casa editrice romana specializzata in narrativa horror, che ha pubblicato nel 2005 Hanno sete. Il bacio oscuro (They Thirst, 1981), nel 2006 L'ora del lupo. Gli artigli della notte (The Wolf's Hour, 1989), nel 2007 La via oscura (Mystery Walk, 1983), nel 2009 La maledizione della casa degli Usher (Usher's Passing 1984), ispirato al racconto Il crollo di Casa Usher di Edgar Allan Poe, e nel 2010 Mary Terror (Mine, 1990).

Ho scoperto questo autore in un mercatino dell'usato dove ho acquistato il libro Il canto del cigno. Ero così affascinato dalla sua lettura che ho iniziato a cercare le sue opere rimanenti.

In ordine cronologico dal primo all'ultimo, comincio a fare una recensione completa e dettagliata di ogni romanzo.

TRAMA

Baal, il tremendo dio dei Fenici, seminatore di Caos, è di nuovo tra i vivi. Sulle tracce di Baal si pongono alcuni individui che hanno intuito l'imminenza di un pericolo straordinario, e che forse sono gli unici in grado di fermarlo in tempo: uno sciamano di nome Zark, un professore di teologia, e un personaggio ambiguo ma disposto a tutto, Michael. Cos'è che vogliono esattamente evitare? Perchè credono, o temono, che quello di Baal non sia più soltanto un mito ma una tremenda realtà?

La violenza lacerava il cielo.
Kul-Haziz la fiutava nell'aria. Puzzava di spade che cozzavano insieme, di sudore, di sangue fresco, di colpe antiche.
Allarmato, staccò lo sguardo dalle pecore chine a brucare, socchiuse le palpebre e osservò il nord. Immobile nel biancore del cielo, il sole ardeva sempre uguale, così come ardeva da mille anni. Con il suo occhio vedeva quanto accadeva al di là dei burroni e ancora più avanti, oltre il bassopiano e i pascoli, dietro le colline che s'innalzavano in lontananza. Vedeva ciò che Kul-Haziz non poteva vedere. Kul-Haziz poteva soltanto sentirne l'odore.
Senza staccare gli occhi dall'orizzonte velato dalla foschia, Kul-Haziz raccolse da terra il bastone nodoso e si mosse lentamente in mezzo al gregge, sfiorando il fianco delle bestie. Lui, la moglie e il giovane figlio, avevano sempre seguito il cammino della pioggia, perché la pioggia portava l'erba. La vita del gregge. E adesso, verso il nord, dove sorgeva la città di Hazor, si addensavano grandi forme scure che sembravano nuvole. Ma non lo erano. Nell'aria non c'era odore di pioggia; se ci fosse stato, Kul-Haziz l'avrebbe già notato da qualche giorno. No. Non c'era odore di pioggia. C'era soltanto odore di violenza.
Dietro di lui, sotto la tenda di pelli di capra, la moglie cessò di lavorare il cuoio e sollevò lo sguardo. Di fronte a lui, sull'altro fianco della vallata, il figlio aveva picchiato, fino a pochi istanti prima, il bastone in terra, per richiamare qualche animale disperso. Adesso non batteva più, e guardava il padre.
Kul-Haziz era immobile come un sasso. Sollevò una mano, poi se la portò davanti agli occhi per proteggerli dal riverbero del sole. Non capiva cosa stesse accadendo. Ricordava le parole degli altri pastori nomadi. La collera di Yahweh ci sovrasta. Siamo una razza condannata, dicevano con voce tremante. Yahweh ci distruggerà tutti per la nostra perversità. Così mormoravano i profeti pastori, i nomadi della pianura, i signori delle colline. Kul-Haziz sentì che il suo cuore batteva tumultuosamente. Sembrava una voce che gridasse, chiedendo di sapere.
Suo figlio si fece strada in mezzo al gregge e venne a fermarsi accanto a lui. Gli afferrò la mano.
Ci fu un lampo che era simile a quello del fulmine, ma che non era il fulmine. Lontano, a nord, in direzione della città di Hazor. Un lampo azzurro e intenso, accecante, luminosissimo, terribile. Kul-Haziz si coprì gli occhi con la mano. Suo figlio lo abbracciò, e nascose la faccia sul suo petto. Dietro di lui, la moglie lanciò un grido di terrore; le pecore fuggirono in tutte le direzioni. Kul-Haziz sentì sul dorso della  mano una vampata di calore. Quando la vampata cessò, riaprì gli occhi e non vide più il lampo. Suo figlio lo fissava: nei suoi occhi c'era una domanda a cui Kul-Haziz non osava rispondere.
E poi vide. Al di là dei burroni, ai limiti della pianura, gli alberi si piegavano sotto un vento fortissimo, si spezzavano e prendevano fuoco. E le distese coperte d'erba diventavano nere, come se fossero state calpestate da un esercito che si allontanasse da Hazor. L'esercito delle fiamme attraversò il bassopiano, lo bruciò. I roveti presero fuoco. La sabbia si arroventò.
Il vento raggiunse Kul-Haziz nella bassa vallata coperta d'erba, mulinò intorno a lui, tentò di strappare gli stracci che lo coprivano, gli soffiò nell'orecchio il suo segreto. Le pecore belarono atterrite.
Entro pochi istanti sarebbe sopraggiunto anche il fuoco che aveva consumato Hazor e che adesso consumava ogni essere vivente nelle vicinanze della città. Kul-Haziz si rese conto che a lui e alla sua famiglia rimanevano pochi respiri, prima che l'aria sempre più calda si trasformasse in una bianca fiammata.
Suo figlio, accanto a lui, mormorò: — Padre...?
I profeti avevano detto il vero. I loro teschi e i loro bastoncini, le loro parole scritte nel cielo, avevano predetto l'approssimarsi della fine. Era stata semplicemente questione di tempo.
Kul-Haziz disse: — Il grande dio Baal non è più.Restò immobile come un sasso.
Un sasso incendiato.

Victoria Lynn Hayden, nota come Torey L. Hayden (Livingston, 21 maggio 1951), è una psicologa infantile e docente universitaria statunite...

Torey-Hayden-La-Figlia-della-Tigre

Victoria Lynn Hayden, nota come Torey L. Hayden (Livingston, 21 maggio 1951), è una psicologa infantile e docente universitaria statunitense, che ha scritto una serie di libri basati sulle proprie esperienze con bambini problematici.

Tra gli argomenti trattati nei suoi libri ci sono l'autismo, la sindrome di Tourette, abusi sessuali, la sindrome alcolica fetale e il mutismo elettivo (che adesso viene chiamato mutismo selettivo), in cui è specializzata.

Oggi faró la recensione del libro La figlia della tigre (pubblicato nel 1995) - titolo originale "Tiger's child"-

Il racconto della lotta che una bambina ha condotto negli anni, da sola, per riscattarsi dagli abusi, dall'abbandono e dalla violenza.

Sheila è cresciuta in un'atmosfera di violenza indescrivibile. Abbandonata dalla madre sull'autostrada a soli quattro anni, non ha mai avuto qualcuno che si occupasse di lei, e la mancanza di amore e di speranza l'ha resa selvaggia, intrattabile e ostile. A sei anni entra a far parte della classe di "bambini difficili" di Torey Hayden, che rimane colpita dal coraggio della piccola Sheila tanto da decidere di raccontarne la vicenda nel libro Una bambina.

Ma che cosa è successo dopo? La figlia della tigre è la risposta a questa domanda: il racconto della lotta che Sheila ha condotto per anni, da sola, per riscattarsi dagli abusi, dall'abbandono e dalla violenza del mondo in cui era costretta a vivere.

Quando la Hayden incontrò per la prima volta Sheila, la bambina si rifiutava di parlare e il suo unico modo di comunicare era attraverso esplosioni di comportamento violento e distruttivo.

Dopo cinque mesi intensi, la Hayden riuscì a fare breccia nelle difese di Sheila e lottò con successo perché fosse ammessa in una classe regolare.

La Hayden non rivide più Sheila fino a che questa aveva 13 anni. Con grande stupore della Hayden, Sheila ricordava molto poco degli straordinari momenti passati assieme. Man mano che la Hayden procede a riallacciare la relazione con l’adolescente Sheila, i ricordi lentamente riemergono, portando con sé sentimenti di abbandono e ostilità.

TRAMA

Fu un momento di déjà vu.

Ero a casa, a trovare mia madre nel Montana, e una domenica mattina ero uscita a passeggiare da sola mentre lei e la mia bambina erano andate a nuotare. Erano appena passate le undici e stavo camminando per il centro commerciale. Con i negozi ancora quasi tutti chiusi, l’ampio viale, illuminato soltanto dalle luci di sicurezza, aveva un’aria spettrale.

A un tratto la vidi. Se ne stava in piedi un po’ più in là, sul viale, all’ombra di una piantatrice. I capelli, lunghi e scompigliati, le coprivano le spalle; la frangetta le arrivava fin sugli occhi; le labbra, piene e sensuali, sporgevano in un tragico broncio. Aveva le braccia incrociate sul petto, strette l’una contro l’altra, e una feroce espressione di sfida in faccia; eppure c’era un che di commovente, in quella sua ferocia. Immagino che sapesse già che non avrebbe vinto. Avevo percorso un bel tratto di viale, quando la vidi, ma la riconobbi all’istante, tanto che sentii l’adrenalina entrarmi a fiotti nelle vene. Sheila.

Uno o due secondi dopo, mi ripresi. Ovvio che non era Sheila. Erano passati più di vent’anni da quel tiepido pomeriggio di giugno in cui l’avevo vista andarsene dalla mia classe. I tempi della scuola, almeno per il momento, me li sono lasciati alle spalle e, a malincuore, ho barattato la giovinezza con la mezza età. Eppure, per quei pochi istanti, al centro commerciale, gli anni scomparvero. Mi sentii trasportare indietro nel tempo, agli anni Settanta e ai miei vent’anni, tornando a essere la lavoratrice incallita di allora, nel mondo di allora.

Poi cominciò a imporsi la realtà, posandosi sull’episodio come un trasparente posato su una pagina. Mi avvicinai incuriosita alla bambina e, quando le fui accanto, finsi interesse per una vetrina per poterla osservare senza che se ne accorgesse. Era più grande della Sheila di allora. Poteva avere sette, otto anni. Aveva i capelli più scuri, castano-cenere più che biondi.

La mia vicinanza non diminuì affatto la sua rabbia. Ero un’estranea, così mi ignorò, concentrando tutta la sua attenzione sulla porta aperta del grande magazzino, gigantesco, alle mie spalle. Non riuscivo a vedere chi l’aveva sconvolta tanto. Chiunque fosse, era sparito nel grande magazzino, ma lei continuava a starsene lì, in piedi, con i pugnetti chiusi e i capelli arruffati che le scendevano sulla fronte, a sprizzare una rabbia disperata e impotente. Io rimasi dov’ero, silenziosa, a un paio di metri di distanza, a meravigliarmi di come un incontro da poco come quello potesse cancellare tanti anni, di come Sheila potesse ancora farmi battere tanto forte il cuore.

***

Sheila e io siamo state insieme soltanto cinque mesi, come allieva e insegnante. In quel breve periodo, il nostro rapporto produsse cambiamenti straordinari nel comportamento di Sheila e trasformò il corso della sua vita. Ma grandi cambiamenti li ebbi anch’io, e la mia vita, anche se questo, allora, non fu altrettanto evidente. Quella bambina così piccola ebbe un effetto profondo su di me. Il suo coraggio, la sua capacità di recupero, la sua involontaria propensione a esprimere quella fame di amore che tutti quanti proviamo, in breve, la sua umanità, mi fece scoprire la mia.

Quei cinque mesi in cui Sheila frequentò la mia classe li ho raccontati in Una bambina. Era un libro privato, che avevo cominciato a scrivere senza pensare affatto alla pubblicazione, ma soltanto per sforzarmi di capire meglio un rapporto che mi toccava tanto profondamente. Allora insegnavo all’università, dove tenevo un corso post-laurea in educazione speciale, ed è a una studentessa di quella classe che devo i miei ringraziamenti. L’ultimo giorno del corso mi regalò un libro di Ron Jones, The Acorn People. Sulla prima pagina aveva scritto: «A Torey, con la speranza che un giorno possa scrivere di Sheila, Leslie e tutti gli altri».

Una bambina, tradotto in ventidue lingue, ha fatto il giro del mondo e mi ha messa in contatto con persone di ogni paese, dalla Svezia al Sud Africa, da New York a Singapore. Un lettore mi ha scritto da una base in Antartide; decine di lettere mi sono arrivate dall’altra parte della cortina di ferro prima che cadesse; e ho da poco rapporti epistolari su Una bambina con la Cina continentale. La gioia con cui tutti hanno visto Sheila crescere e cambiare ha necessariamente prodotto una domanda, sempre la stessa: e dopo, che cosa è successo?

Una bambina è una storia vera, tratta dalle esperienze reali di persone reali. Se ho esitato a scriverne un seguito, è semplicemente perché Sheila, a sei anni, era tanto affascinante, e il periodo trascorso insieme era stato tanto costruttivo. E infatti, il mio editor di Una bambina mi propose addirittura di stralciare, nell’epilogo, la narrazione di quanto era successo a Sheila dopo che ci eravamo lasciate. È raro che la vita reale sia soddisfacente quanto un’opera narrativa, o quanto un’opera non narrativa giudiziosamente rivista, ed era opinione diffusa che il periodo tra lo scioglimento della mia classe e il momento in cui avevo scritto Una bambina fosse un finale troppo cupo per una storia tanto lieta. Così, il libro si concludeva con la bella poesia di Sheila ma non forniva ulteriori dettagli.

Ora ho cambiato idea, non soltanto per via delle innumerevoli richieste da parte dei miei lettori, ma anche per Sheila, che, nonostante lo svantaggio iniziale, è diventata una giovane donna affascinante e in grado di esprimersi articolatamente. Quei cinque mesi trascorsi insieme ebbero davvero un effetto profondo su di lei, ma Una bambina, contrariamente alle mie intenzioni, raccontava soprattutto la mia storia. Per Sheila l’esperienza fu molto diversa, ed ecco qui, per citare Paul Harvey, il resto della storia.

  Quel che rimane (All That Remains) è un romanzo della scrittrice Patricia Cornwell pubblicato nel 1992. Richmond, Virginia. Un seri...

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Quel che rimane (All That Remains) è un romanzo della scrittrice Patricia Cornwell pubblicato nel 1992.

Richmond, Virginia. Un serial killer si accanisce sulle coppie di fidanzati. Quando della quinta coppia uccisa fa parte la giovanissima figlia di Pat Harvey, un'importante esponente politica, impegnata nella lotta alla droga, lo scalpore è enorme. Ma l'autore del delitto è il serial killer o c'è dietro una cospirazione politica? Kay Scarpetta indaga insieme Marino e alla giornalista Abby Turnbull, che troverà la morte dopo aver risolto il caso nel tentativo di ricavarci uno scoop. Sullo sfondo, la sua tormentata vicenda sentimentale con l'agente federale Mark James.

TRAMA

Sabato, ultimo giorno di agosto, mi misi al lavoro prima dell'alba. Non vidi la foschia sollevarsi come fumo da un prato bruciato, né il cielo colorarsi d'azzurro intenso. Per tutta la mattina i tavoli d'acciaio rimasero occupati dai cadaveri, e l'obitorio non ha finestre. Il fine settimana del Labor Day si era inaugurato con una catena di incidenti e una sparatoria a Richmond.
Quando finalmente tornai nella mia casa nel West End e udii Bertha passare lo straccio sul pavimento di cucina, erano ormai le due del pomeriggio. Bertha veniva a farmi i mestieri ogni sabato e sapeva per esperienza di non doversi preoccupare del telefono, che si era appena messo a squillare.
«Non ci sono» dissi ad alta voce, aprendo il frigorifero.
Bertha si fermò. «Ha suonato anche un minuto fa» spiegò. «E suonava anche prima. Sempre lo stesso tizio.»
«In casa non c'è nessuno» ribadii.
«Come vuole, dottoressa Kay.» Lo straccio riprese a scivolare sul pavimento.
Nella cucina baciata dal sole cercai di ignorare l'intrusione dell'incorporeo messaggio destinato alla segreteria. L'autunno si avvicinava: era tempo di cominciare a fare scorta di pomodori. In quel momento me ne restavano tre. E l'insalata di pollo che fine aveva fatto?
Il bip fu seguito da una voce maschile alquanto familiare. «Ehi, capo, sono Marino...»
Signore, sospirai, richiudendo con un colpo d'anca la porta del frigorifero. Pete Marino, agente investigativo della Squadra Omicidi di Richmond, era in pista da mezzanotte e lo avevo incrociato in obitorio, mentre estraevo i proiettili da uno dei suoi casi di omicidio. In teoria avrebbe dovuto essere in viaggio verso il lago Gaston, per quel che gli restava di un weekend di pesca. E io non vedevo l'ora di dedicarmi un po' ai lavori in giardino.
«Ho bisogno di rintracciarti, sto andando fuori città. Richiamami, ho il cercapersone...»
La voce di Marino era venata d'impazienza. Sollevai il ricevitore.
«Eccomi, eccomi.»
«Ehi, sei tu o è ancora quel maledetto aggeggio?»
«Prova un po' a indovinare» risposi.
«Brutte notizie, capo. Hanno trovato un'altra macchina. New Kent, l'area di sosta sulla Sessantaquattro, direzione ovest.
Benton mi ha appena...»
«Un'altra coppia?» lo interruppi, i programmi della giornata ormai svaniti.
«Fred Cheney, maschio, razza bianca, diciannove anni. Deborah Harvey, femmina, bianca, diciannove anni. L'ultima volta sono stati visti ieri sera verso le otto, mentre si allontanavano in auto dalla casa degli Harvey a Richmond, diretti a Spindrift.»
«E adesso la macchina è sulla corsia ovest?» chiesi, visto che Spindrift, nella Carolina del Nord, si trova tre ore e mezza a est di Richmond.
«Già. A quanto pare andavano nella direzione opposta, come per rientrare in città. Un'ora fa un agente ha trovato la macchina, una jeep Cherokee. Nessuna traccia dei ragazzi.»
«Arrivo subito» dissi.
Questa volta Bertha non si era fermata, ma sapevo che aveva captato ogni singola parola della conversazione.
«Appena finito qui me ne vado anch'io» disse. «Ci penso io a inserire l'allarme, dottoressa, non si preoccupi.»
Afferrai la borsetta e uscii di corsa, in preda a una sensazione di paura.
Fino a quel momento le coppie erano quattro. Ognuna scomparsa e poi ritrovata assassinata in un raggio di settantacinque chilometri da Williamsburg.
I casi, ribattezzati dalla stampa "Omicidi per due", erano del tutto inspiegabili e nessuno sembrava in possesso del benché minimo indizio o di una teoria credibile; nemmeno l'Fbi con il suo VICAP, il Programma Verifiche Incrociate Crimini Violenti, fondato su una banca dati nazionale gestita da un computer in grado di stabilire connessioni fra omicidi in serie e cadaveri di persone scomparse non identificati. In seguito al ritrovamento della prima coppia di vittime, un paio d'anni prima, la polizia locale si era rivolta alla squadra regionale VICAP, composta fra gli altri dall'agente speciale Fbi Benton Wesley e dal veterano Pete Marino, agente investigativo della Squadra Omicidi di Richmond. Poi era scomparsa una seconda coppia, e poi un'altra, e un'altra ancora. Ogni volta, prima che il VICAP venisse informato, e prima che il Centro Nazionale Informazioni sui Crimini, o NCIC, avesse il tempo materiale di diffondere via cavo le descrizioni ai dipartimenti di polizia di tutta l'America, i giovani scomparsi erano stati ritrovati in qualche bosco, morti e in stato di decomposizione.
Spensi la radio e superai la barriera del casello, quindi accelerai imboccando la I-64 verso est. Voci e immagini mi riaffiorarono di colpo alla mente. Ossa e abiti imputriditi cosparsi di foglie. I volti belli e sorridenti dei ragazzi sulle pagine dei giornali, i famigliari sgomenti e disperati nelle interviste televisive, o all'altro capo del telefono.
«Mi dispiace moltissimo, mi creda.»
«La prego, mi dica come è morta la mia bambina! Dio, Dio, ha sofferto? Ha sofferto molto?»
«La causa della morte non è stata ancora accertata, signora Bennett. Purtroppo in questo momento non so dirle altro.»
«Cosa significa non so?»
«Tutto quel che rimane sono le sue ossa, signor Martin. E con i tessuti molli se ne vanno anche le possibili ferite...»
«Le vostre stronzate mediche non mi interessano! Voglio sapere cosa ha ucciso mio figlio! I poliziotti vengono qui e chiedono se era drogato: mio figlio non ha mai bevuto, figuriamoci se si drogava! Mi ascolta, signora? Lui è morto e quelli cercano di farlo passare per uno sballato...»
"SCONFITTA DEL MEDICO LEGALE: LA DOTTORESSA KAY SCARPETTA INCAPACE DI PRONUNCIARSI SULLE CAUSE DEL DECESSO."
Causa non identificata.
Ogni volta la stessa storia. Otto giovani vite.
Tremendo. Nella mia carriera, un fatto senza precedenti.
Ogni patologo forense ha qualche caso irrisolto, ma non me ne erano mai capitati così tanti legati fra loro. Almeno apparentemente.
Aprii il tettuccio della macchina e mi sentii rinfrancata. La temperatura sfiorava i venticinque gradi, presto le foglie avrebbero cominciato a ingiallire. Gli unici momenti dell'anno in cui non sentivo nostalgia di Miami erano l'autunno e la primavera. Le estati di Richmond erano altrettanto calde, ma mancava l'effetto benefico delle brezze oceaniche che ripulivano l'atmosfera; il tasso di umidità era altissimo, e d'inverno non mi andava meglio visto che non amo il freddo. In compenso, primavere e autunni erano eccitanti, e ogni cambio di stagione mi andava diritto alla testa, inebriandomi.
L'area di sosta della I-64 nella contea del New Kent distava esattamente quarantasette chilometri da casa mia. Assomigliava a qualunque altra area di sosta della Virginia, con tavoli per picnic, barbecue per le grigliate e botti di legno come bidoni portarifiuti, servizi igienici in mattoni, distributrici automatiche e alberelli appena piantati. Ma non un viaggiatore o un camionista in giro: solo una distesa di macchine della polizia.
Un agente, accaldato e serio nell'uniforme grigiazzurra, mi si fece incontro mentre parcheggiavo vicino ai bagni delle donne.
«Spiacente, signora» annunciò, piegandosi verso il mio finestrino. «Oggi l'area è chiusa. Purtroppo devo pregarla di continuare fino alla prossima.»
«Dottoressa Kay Scarpetta» mi identificai, spegnendo il motore. «Mi ha chiesto la polizia di venire.»
«Per quale motivo, signora?»
«Sono il capo medico legale» spiegai.
Mentre mi scrutava dalla testa ai piedi, notai lo scetticismo che gli trapelava dagli occhi. Certo non avevo l'aria del "capo": gonna di jeans stone-washed, camicia Oxford rosa e comode scarpe da passeggio in pelle. In altre parole, ero priva dei tratti distintivi dell'autorità, compresa la macchina d'ordinanza che aspettava un nuovo treno di gomme nell'officina del dipartimento. Di primo acchito sembravo forse più una yuppie stagionatella in giro per commissioni sulla sua Mercedes grigio scuro, una svagata biondo-cenere diretta al centro commerciale più vicino.
«Mi occorre un riconoscimento.»
Frugai in borsetta fino a trovare il portadocumenti nero e sottile ed esibii lo stemma in ottone di medico legale, quindi gli tesi la patente di guida e l'agente esaminò entrambi per un lungo momento. Intuivo il suo imbarazzo.
«Lasci pure qui la macchina, dottoressa Scarpetta. Quelli che cerca sono là dietro.» Fece un cenno verso l'area di parcheggio riservata a camion e autobus. «Buon divertimento» aggiunse poi stupidamente, allontanandosi.
Seguendo un vialetto di mattoni girai attorno all'edificio e passai all'ombra degli alberi, dove venni accolta da altre macchine della polizia, un carro attrezzi con luce lampeggiante e almeno una dozzina di uomini in uniforme o in borghese. Non vidi la Cherokee rossa finché non me la trovai davanti. Giaceva sul bordo della strada, nascosta dal fogliame a metà della rampa d'uscita. Si trattava di un modello a due porte, coperto da una pellicola di polvere. Lanciai un'occhiata attraverso il finestrino del guidatore e notai i lindi interni in pelle, i bagagli ordinatamente stipati sul sedile posteriore, una tavola e un rotolo di fune in nylon giallo per sci d'acqua, una borsa termica di plastica bianca e rossa. Dal blocco d'accensione pendevano ancora le chiavi. I finestrini erano abbassati, ma non completamente. Sul declivio d'erba  spiccavano i segni dei pneumatici, mentre la griglia anteriore cromata poggiava contro una macchia di giovani pini.
Marino stava parlando con un tizio magro e biondo che non conoscevo ma che mi venne presentato come Jay Morrell, della Polizia di Stato. Aveva tutta l'aria di essere il capo.
«Kay Scarpetta» dissi di mia spontanea iniziativa, visto che Marino non era riuscito a dire altro che "la dottoressa".
Morrell mi puntò addosso i suoi Ray Ban verde scuro e annuì. In abiti civili e con baffetti più simili a una peluria adolescenziale, trasudava la spavalderia professionale che, ormai automaticamente, associavo agli agenti alle prime armi.
«Questo è quanto sappiamo al momento.» Si guardava intorno con fare nervoso. «La jeep appartiene a tale Deborah Harvey, che insieme al fidanzato... Fred Cheney si è allontanata dall'abitazione dei genitori ieri sera Verso le venti. Erano diretti a Spindrift, dove gli Harvey hanno una proprietà.»
«I genitori della ragazza si trovavano a casa, quando la coppia è partita?» chiesi.
«No, signora.» Per un attimo le lenti si voltarono dalla mia parte. «I genitori si trovavano già a Spindrift, erano partiti qualche ora prima. Deborah e Fred volevano viaggiare separati perché progettavano di tornare a Richmond lunedì. Frequentavano entrambi il secondo anno all'università della Carolina, dovevano rincasare presto per prepararsi all'inizio dei corsi.»

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